C’è chi vuole una Chiesa potente, capace di imporsi all’Amministrazione penitenziaria e all’Area educativa per condizionare i percorsi rieducativi, e, con le risorse economiche di cui si presume disponga, sia anche in grado di migliorare il tenore di vita di un carcere. Se non esercita questo suo potere è colpevole, quanto meno di acquiescenza, se non complicità, con le istituzioni. C’è chi vuole una Chiesa lievito e sale, che non si impone e non vuole sostituirsi; che fa il poco che può e dà il poco che ha, accettando di essere marginale. Se quello che fa e dona non è né visibile né riconosciuto è conferma del suo volto evangelico.
a cura della Redazione di “Ne vale la pena”
Cattolica e piccola così
Credo la Chiesa
DIETRO LE SBARRE
La prima a morire
I principi su cui è fondata la Chiesa sono, come noto a tutte e tutti, quelli della carità, della misericordia, della grazia, del perdono, della speranza. E si sa, in carcere, si vive di speranza.
La Chiesa alla Dozza svolge, a mio parere, un ruolo marginale, e non sono a conoscenza se per propria scelta o per imposizione altrui.
Gli uomini che rappresentano la Chiesa spesso vanno a braccetto con le istituzioni, senza però costruire alcunché per i meno fortunati. Vedo un grande distacco degli uomini di Chiesa, mi sembrano in realtà dei politici: basti guardare, talvolta, l’arrivo scenografico e mediatico di chi dovrebbe diffondere la parola di nostro Signore.
L’ultimo incontro è stato nell’occasione della messa di Natale, dove il cardinale Zuppi ha tenuto l’omelia, invitando noi ex-liberi a non perdere mai la speranza. La stessa omelia è finita con l’intervento della direttrice dell’istituto, che ha esordito dicendo di non voler essere autocelebrativa, anche se le sue parole hanno, purtroppo, affermato il contrario.
Autocelebrazione: nel ribadire quanto è difficile lavorare qui dentro (figuriamoci viverci).
Autocelebrazione: nell’affermare di aver ricevuto la conferma dell’incarico (anche se fallimentare come ben noto). L’importante, però, è comunque averlo ricevuto questo incarico.
Insomma, con queste poche frasi ha accentrato l’attenzione sulla propria figura, senza inserire in nessun modo, nel suo discorso, noi detenuti.
Ecco come vedo io la Chiesa in carcere: una possibilità di credere, soprattutto durante la Santa festività del Natale, in un rinnovamento di carità, misericordia, grazia, perdono e speranza.
Ma alla fine, alla Dozza, la speranza è stata la prima a morire alla fine di certi discorsi.
Alex Frongia
Se il Giubileo entrasse in carcere
Sono un detenuto un po’ agée e quindi posso consentirmi di esprimere fino in fondo la mia personale esperienza di contatto con il cattolicesimo in carcere. La religione cattolica ha sempre avuto un ruolo significativo nella mia vita di uomo libero, offrendomi conforto, speranza e un senso di comunità. Questo ruolo è diventato ancora più cruciale all’interno delle mura carcerarie, dove sono costretto giornalmente ad affrontare sfide emotive, psicologiche e spirituali uniche.
La vita alla Dozza è estremamente stressante e alienante. La religione mi offre un rifugio emotivo, aiutandomi a trovare pace interiore e a gestire l’ansia e la depressione. Gli incontri del sabato del gruppo vangelo, le messe domenicali come la preghiera e la meditazione, possono fornire un senso di calma e stabilità in un ambiente altrimenti turbolento.Infine, la presenza della religione in carcere promuove il rispetto e la tolleranza tra i detenuti. Le diverse fedi qui rappresenta
te offrono opportunità di apprendimento e comprensione reciproca, contribuendo a creare un ambiente più armonioso. Ma il mio accostarmi ancora di più alla parola del Vangelo ha motivazioni che non sono solo spirituali e che nascono invece anche dall’esame dell’impegno che viene prodotto dalla Chiesa per i detenuti.
I temi della giustizia penale sono continuamente all’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi, particolarmente in un tempo in cui le differenze economiche e sociali ed il crescente individualismo alimentano le radici della criminalità.
La tendenza, però, è di restringere il dibattito solo al momento della disciplina dei reati e delle sanzioni o al momento processuale. Minore o nessuna attenzione viene invece prestata alla modalità di esecuzione delle pene detentive, in relazione alla quale al parametro della “giustizia”, deve essere accostato come essenziale quello del rispetto della dignità e dei diritti dell’uomo. Tale ruolo è però svolto in maniera quasi esclusiva dalla Chiesa e dalle organizzazioni del terzo settore che ritengo siano le necessarie stampelle di un sistema penitenziario in sofferenza. Il messaggio forte di speranza che arriva dal Papa è che occorre impegnarsi, in modo concreto e non solo come affermazione di un principio, per una effettiva rieducazione della persona, richiesta sia in funzione della dignità sua propria, sia in vista del suo reinserimento sociale. L’esigenza personale del detenuto di vivere in carcere un tempo di riabilitazione e di maturazione è, infatti, esigenza della stessa società, sia per recuperare una persona che possa validamente contribuire al bene di tutti, sia per depotenziarne la tendenza a delinquere e la pericolosità sociale. Al fine di “fare giustizia” non basta cioè che colui che è riconosciuto colpevole di un reato venga semplicemente punito; occorre che, nel punirlo, si faccia tutto ciò che è possibile per correggere e migliorare l’uomo. Quando ciò non accade la giustizia non è realizzata in senso integrale. In ogni caso ci si deve impegnare per evitare che una detenzione fallita nella funzione rieducativa divenga una pena diseducativa, che, paradossalmente, accentua, invece di contrastare, l’inclinazione a delinquere e la pericolosità sociale della persona. Il contatto con coloro che hanno commesso colpe da espiare e l’impegno richiesto per ridare dignità e speranza a chi spesso ha già sofferto l’emarginazione ed il disprezzo richiamano la missione stessa di Cristo, il quale è venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori destinatari privilegiati della misericordia di Dio. Ogni uomo è chiamato a diventare custode del proprio fratello, superando così l’indifferenza omicida di Caino.
Nel nostro piccolo, in quel fondo di bottiglia chiamato carcere in cui si depositano gli scarti delle società ineguali, occorre rovesciare l’abitudine di scambiare la domanda di giustizia con quella dell’inflizione di una sofferenza in capo a un capro espiatorio.
Proprio come scrive Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo, siamo chiamati a “essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, a partire dai detenuti che, “privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Per questo Francesco propone ai governi che nell’anno del Giubileo “si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. E per questo che, personalmente, sono dell’avviso che la nostra speranza sta nella certezza che il Signore non ci abbandona mai nelle nostre miserie ed errori, se siamo disposti a convertirci e ad accoglierlo.
Athos Vitali