«Partite dalle periferie, consapevoli che non sono la fine, ma l’inizio della città» (papa Francesco). Il carcere sta alla città come il titolo a un libro: si trova all’inizio, ma ne indica il cuore. Il carcere sta alla città come l’indice a un libro: si trova nelle ultime  pagine, ma ne comprende l’intero contenuto.

                                                                                    a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Periferia, voce del verbo capire

Ogni uomo è il profumo della vita

DIETRO LE SBARRE

 Lontano dal centro, vicino al cuore

Da secoli l’umanità è divisa in classi sociali, che, estremizzando, potremmo ancora ridurre alla coppia di “miseria” e “nobiltà”.

Questa separazione che si registra nel mondo è presente, su scala minore, anche nelle singole città, divise per lo più fra il centro e la periferia. E mentre il centro è abitato da persone benestanti, rispettate e fortunate, la periferia accoglie per lo più quelli che la fortuna non l’hanno mai incontrata.
Ma chi è veramente più ricco? Dove si trova la vera ricchezza tra “miseria” e “nobiltà”? Potrei raccontare tante storie vissute nel centro di Bologna e anche tante trascorse in periferia. E vivendo sia l’una che l’altra dimensione ho scoperto che i soldi non fanno la felicità, e che di fronte alle disgrazie siamo tutti uguali. Proprio nei momenti difficili il cervello si illumina, il cuore si intenerisce, la forza aumenta, con una vitalità che contagia il prossimo. Risulterei banale raccontando le storie che ho vissuto in periferia, perché credo che tutti lo sappiano: lì non ci si annoia mai, accadono sempre cose strane, cose che “al centro” nemmeno ci si immagina.
Le cose strane accadono anche qui dove adesso vivo io, nella periferia delle periferie. Perché potremmo dire che anche in carcere ci sono il centro e la periferia. Come fuori, anche qui ci sono quartieri tranquilli e quartieri malfamati e disagiati. Le celle, però, costano tutte uguali e nulla impedisce di ricercare un alloggio nelle zone nobili. Ma… perché abbandonare la ricchezza di vita per trasferirsi in un quartiere silenzioso dove regnano la noia e la monotonia? Qualcuno mi chiede perché non cambio sezione e come riesco a stare in mezzo ai marocchini che fanno un sacco di casino. Io ironicamente rispondo che sto bene “su” in periferia, al terzo piano, e che ci rimango nonostante le tensioni che spesso si verificano, con proteste anche violente. Nonostante il contesto la vita deve essere vissuta. Se sei ricco ti ritrovi a cercare emozioni altrove, se sei povero desideri di vestire i panni del ricco, e se sei stanco del tuo quartiere cerchi tranquillità altrove. Quasi che il benestante non possa vivere senza il povero e viceversa.
Anche se è davvero un’altra storia, penso al Decameron di Boccaccio, a quei ragazzi benestanti che proprio grazie alla loro agiatezza avevano potuto fuggire la peste per rinchiudersi, lontano dal centro, nei loro possedimenti lussuosi; eppure si annoiavano e decisero di raccontarsi storie, che, guarda caso, riguardavano soprattutto problemi, inganni ed ingenuità che si verificano nelle periferie di ogni città. Forse è il centro che non può vivere senza periferia?

Pasquale Acconciaioco

Carcere in periferia, carcere periferia

Negli anni ’70, in coincidenza con l’industrializzazione di molte aree urbane del centro nord e la successiva migrazione di numerosi operai, ci si è posti il problema di garantire alloggi a canoni calmierati. Purtroppo le scellerate scelte urbanistiche operate furono quelle di privilegiare, all’interno della pianificazione territoriale, le aree di edilizia economica e popolare slegate dalla città e quindi si diede vita al diffuso fenomeno delle periferie cittadine. Quartieri dormitorio, privi di servizi di urbanizzazione tanto primaria quanto secondaria, lontani e scollegati dai centri urbani. Periferie abitate da “uomini marginali in un mondo di marginali”. Il cemento diventò il marchio di una infraurbanità o meglio di una infraumanità. 
Il fenomeno che inizialmente riguardava i “terroni” si è col tempo allargato alle comunità migranti dell’Africa e di altri Paesi dell’area balcanica. L’uniformità delle condizioni di esistenza è uno dei fondamenti della società reale che unisce gli abitanti delle periferie. La coscienza della relegazione, al tempo stesso sociale e spaziale, di cui si è vittima, ravviva il sentimento di appartenenze che spesso trascendono in fenomeni di criminalità. Una identità tutta negativa, dato che si fonda sul sentimento di esclusione più che su quello di comunione, su di una serie di tratti distintivi che sono stati costruiti principalmente dallo sguardo altrui e trasformati in stigma.
Le politiche abitative hanno voluto dissimulare nascondendo le periferie agli sguardi esterni. La negazione dei servizi essenziali ha avuto il fine di non riconoscere ufficialmente queste realtà. Gli abitanti, non volendo aderire a questo tipo di habitat, in molti casi hanno risposto con il degrado degli spazi comuni. Solo da pochi anni si tenta invece un’operazione inversa che mira alla ricucitura dei territori con operazioni di estetica urbanistica e di giustizia sociale. Ma purtroppo la frittata è già stata fatta! Ma se chiudiamo per un attimo gli occhi è possibile vedere con il cuore una realtà pressoché uguale: è il carcere.
Non è un caso che i progetti di nuove carceri prevedano, tutti, la realizzazione degli edifici o in periferia o a qualche distanza dalle città e la dismissione degli istituti di pena collocati nei centri cittadini. È forse fin troppo facile, ma non per questo meno giusto, dedurne che quella procedura di “nascondimento” degli istituti di pena sia la trascrizione toponomastica di un processo psichico collettivo, che va qualificato, appunto, come rimozione. E la rimozione è proprio l’atteggiamento prevalente nei confronti del carcere da parte della società.
In altre parole, la mentalità collettiva tende a spostare fuori dalle mura cittadine i luoghi di detenzione, proprio per allontanare da sé quel rimosso rappresentato, appunto, dal carcere e da chi lo abita; e, soprattutto, ciò di cui quegli “abitanti” sono simbolo e, insieme, incubo.
Il carcere, che la società si ostina a considerare irrinunciabile, è un carcere invisibile, solamente immaginato. Non può essere giudicato, processato, dalla collettività, perché non si vede. Questa invisibilità ha consentito al carcere, in trecento anni di storia, di sopravvivere a se stesso, di proporsi come strumento ideale di sicurezza, di manifestarsi come mezzo perfetto di giustizia e paladino dei deboli contro il crimine.
E allora il collante che lega periferia e carcere ha bisogno di risposte inclusive, di contaminazione continua fra etnie, religioni e stili di vita, di ponti di umanità e non di muri invalicabili, di chiavi che possano aprire i cuori degli abitanti inariditi dalla discriminazione. Occorre, come osservò il cardinale Zuppi in uno dei suoi primi discorsi, appena nominato arcivescovo di Bologna, che «l’ascensore sociale venga aggiustato dopo anni di malfunzionamento».

Fabrizio Pomes