Dinto a sti quatte mura/ addò nisciuno ride/ si 'o ppienze nun ce cride / ca Dio sta pure ccà.
Na prova certa l'aggio avuta io stesso:/ Dio ce ha mannato ddoje belli pperzone;/ cu' na pacienza 'e Giobbe/ nce sentono, nce ajutano, nce 'mparano 'o Vangelo.
Missione assaje difficile/ pecché chi 'e ssente tene 'o core scuro/ ca se ribella a chi lle conta 'e Dio/ e nun s'accorge ca 'o tene int' 'o 'core.
Ma doppo che sentimmo pe' cchiù 'e n'ora,/ ce calmano ausanno l'arma 'e Dio/ nu libbriciello, nu surriso e basta,/ e nce alzammo d‘ ‘o tavulo dicenno “Padre nostro ....”
E chisto è nu miraculo ca sulo Dio po' ffà,/ servennose d'Antonio e d' 'a signora Chiara/ ca cu' ll'aiuto suojo trovano 'a forza/ 'e trasì dinto ccà. 

Dio sta anche qua Dentro a queste quattro mura/ dove nessuno ride/ se ci pensi non ci credi/ che Dio sta anche qua/ Una prova certa l'ho avuta io stesso/ Dio ci ha mandato due belle persone/ con una pazienza di Giobbe/ ci ascoltano, ci aiutano, ci insegnano il Vangelo/ Missione assai difficile/ perché chi le ascolta tiene il cuore oscuro/ che si ribella a chi gli racconta di Dio/ e non si accorge che lo tiene nel cuore/ Ma dopo che ascoltiamo per più di un'ora/ ci calmano usando l'arma di Dio/ un libretto, un sorriso e basta/ ci alziamo dal tavolo dicendo " Padre nostro..."/ E questo è un miracolo che solo Dio può fare/ servendosi di Antonio e della signora Chiara/ che con l'aiuto suo trovano la forza/ di entrare qua dentro. Enzo Biemmi (a cura di), Il secondo annuncio. Errare, EDB, Bologna 2015, p. 67.

 a cura della Redazione di “Ne vale la pena” di Bologna

Il dialogo è il velo di Dio

 DIETRO LE SBARRE 

 Ascoltati o ignorati?

Varcata la soglia, il detenuto sparisce. Di lui la società difficilmente saprà qualcosa né, tantomeno, si interesserà.

E l’istituzione favorisce questa completa separazione della sua vita dalle vite di chi sta fuori, provocando una “desertificazione sociale” che spesso comporta pesanti conseguenze psicofisiche. Allora è necessario che proprio qui dentro si producano le energie positive che occorrono ad ogni essere umano per sopravvivere. Una dimensione indispensabile, in questo senso, è l’ascolto: dopo ormai nove anni di vita qui dentro ancora mi chiedo se qualcuno e chi in specifico si deve assumere questo onere.
Le persone che vivono qui cercano costantemente il contatto con la realtà esterna. Con la famiglia in primis, per chi ce l’ha; ma chiunque provenga dall’esterno rappresenta una risorsa: anche l’avvocato a volte da patrocinatore si trasforma in psicologo e confessore. Le politiche carcerarie hanno sostituito i legami col mondo fuori con figure istituzionali che dovrebbero supportare l’auspicato percorso di risocializzazione: psicologi, educatori, assistenti sociali, sanitari, a cui si aggiunge la realtà del volontariato. Ma questo meccanismo non funziona. L’area educativa non è in grado di costruire intorno al detenuto un sistema di relazioni autentiche. In realtà i detenuti stanno solo con i detenuti. I più fortunati vedono il proprio educatore un’ora all’anno! Psicologi ed assistenti sociali si limitano ad un ruolo di mera presenza occasionale e burocratica.
Il sistema creato dall’istituzione, quindi, ignora quelli che accoglie. Rimane il volontariato, che con impegno ed abnegazione cerca, nei limiti imposti dalle norme e a volte anche dalle resistenze “ambientali”, di stabilire quella vicinanza di cui nessuno può fare a meno. In questa dimensione positiva, di ascolto e scambio di umanità, si colloca senz’altro anche la Chiesa, che, in questo deserto, rappresenta per molti un’ancora di salvezza. Sono tanti i volti di religiosi e laici che, in nome della fede che li guida, ci parlano, anche senza parole, di speranza e di possibilità di riscatto, ascoltandoci e comprendendo il nostro bisogno.

Salvatore Verrigno

 Dialogo aperto fra le fedi

Spesso durante il periodo di carcerazione i reclusi si aggrappano alla religione trovando in essa un’ancora sicura. Da non credenti o non praticanti che si era, in galera si diventa fedeli devoti. In prigione la religione è particolarmente sentita ed è per questo che difficilmente può diventare oggetto di scherno: è quasi impossibile ascoltare espressioni ingiuriose contro ciò che è sacro e, se accade, chi bestemmia viene biasimato. Spesso cristiani e musulmani convivono nella stessa cella, condividendo cibo, momenti di sofferenza e di allegria. Ma ciò che colpisce di più è il rispetto verso l’altro. Accade ad esempio che il compagno di cella islamico sia in procinto di pregare e l’altro per non disturbarlo mette la TV in modalità muta. Molte volte detenuti di fedi diverse si confrontano su tematiche religiose scoprendo che sono più gli elementi che li uniscono rispetto a quelli che li dividono. Queste discussioni aiutano a conoscersi meglio abbattendo quei falsi miti che creano diffidenza tra gli esseri umani.
Un momento in cui si sente una particolare fratellanza tra le confessioni è quello delle feste religiose, soprattutto quelle cristiane. Infatti durante le festività natalizie e pasquali, i detenuti cattolici preparano da mangiare diverse prelibatezze, invitando a pranzare insieme a loro anche gli altri compagni del reparto, senza distinzione di fede. La condivisione del pasto diventa momento di gioia e carità in un luogo così triste.
Grazie al cappellano, ai volontari e ai mediatori culturali ogni anno all’interno della chiesa dell’istituto bolognese si svolge l’incontro di preghiera interreligioso tra detenuti di fede cristiana ed islamica, in memoria dell’iniziativa promossa da papa Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 per i rappresentanti delle diverse confessioni. Come allora ad Assisi anche oggi qui alla Dozza questi incontri mirano a costruire un dialogo di pace, cercando di sradicare quei pregiudizi che nutrono intolleranza e ostilità, dal momento che senza fratellanza non ci può essere futuro.

Emme Igli

 La Chiesa in carcere, messaggera di umanità

Papa Francesco ha detto che vuole «una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza». Una Chiesa che, partendo dall’inferno del carcere, possa lanciare la sua sfida “impossibile” e rappresentare un modello di sconcertante attualità per chi vuole praticare un cristianesimo all’insegna del coraggio e della passione per l’uomo. Purtroppo in carcere è ancora diffusa l’idea che la Chiesa sia lontana dalla società vera. Così chi è attratto dal vangelo, resta ai margini perché vede la Chiesa come una barriera. La Chiesa non può e non deve pensarsi separata dalla Dozza. In essa deve trovare se stessa.
Occorre avviare nuove esperienze di presenza e di dialogo soprattutto in questo luogo in cui l’elemento relazionale è così importante per l’anonimato e la solitudine che molti vivono; credere in Dio ma anche nell’uomo e nelle sue possibilità. Una Chiesa che sa che l’uomo sta stretto nella sentenza che l’ha condannato, nella definizione che gli hanno cucito addosso; che sa che l’uomo non coincide con la colpa che ha commesso; che si rifiuta di spiegare l’uomo col suo passato, ma preferisce capirlo attraverso ciò che non è stato ancora capace di fare o di essere.
Il nostro cappellano non giudica nessuno irrecuperabile. Continua imperterrito con la sua opera ad aspettare qualcosa di buono anche da quegli individui che tutti ritengono dei “poco di buono”. Il suo è servizio della fede e, insieme, servizio della speranza. Mi colpisce il suo sguardo, abituato a posarsi sulle vicende della vita reale, con i suoi drammi e il bene nascosto sotto cumuli di immondizia. È uno sguardo che offre a tutti i detenuti uno specchio in cui possono scoprire l’immagine di chi possono essere. Aver fede in carcere significa credere in Uno che crede in noi. Dobbiamo sentire il dovere di precipitarci, come Zaccheo, giù dall’albero delle rassegnazioni, dei rimorsi e delle paure, rispondere a una voce che ci chiama per nome, non per rinfacciarci le nostre malefatte ma per ricordarci le nostre possibilità.
Abbiamo bisogno di una Chiesa consapevole che l’opposto della misericordia, come dell’amore, non è tanto l’odio quanto l’indifferenza, la freddezza, il rifiuto di compromettersi, il non coinvolgimento. Cerchiamo una Chiesa che non si senta a posto semplicemente attraverso il tepore delle pratiche religiose ma che si chini amorevolmente sul fratello in atteggiamento di servizio, che si faccia prossima con tutti, anche con i più lontani. Non basta la carità anonima, impersonale, burocratica, piatta e ripetitiva. La carità deve tradursi in capacità e gioia di sorprendere l’altro, di intuirne le esigenze, di offrirgli novità che lo aiutino a vivere, a sperare.
Aspiriamo ad una Chiesa che voglia umanizzare il carcere, umanizzandosi come Cristo che non si è vergognato di apparire umano. Cristo, pienezza di umanità in cui abita la pienezza della divinità. La Chiesa inoltre può aiutarci a coltivare il desiderio di pregare, per trovare un colloquio assiduo con Dio rendendoci non soltanto più spirituali, ma più umani, e quindi testimoni credibili di quel Dio che è misericordia, tenerezza, perdono, pazienza, pietà.

Fabrizio Pomes