“A volte ritornano”, potrebbe essere la frase riassuntiva dell’incontro fra i ragazzi del campo di lavoro di Imola e il medico imolese Monica Minardi, oggi presidente di Medici Senza Frontiere Italia e in passato, quando aveva sedici anni, volontaria al campo, prima di partire per le missioni sanitarie in giro per il mondo.
a cura di Saverio Orselli
Esserci o non esserci
Una responsabilità senza frontiere
La formazione giusta da mettere in Campo
Nel campo di lavoro di Imola svoltosi in agosto, molto interessanti sono state le mattinate di formazione:
la prima con lo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai sui temi del disagio giovanile che caratterizza questo nostro tempo, la seconda ha avuto come protagonista la dottoressa Monica Minardi, dall’aprile 2022 presidente di Medici Senza Frontiere Italia. Un incontro che ha rappresentato anche un ritorno, visto che Monica, prima di andare in giro per il mondo per MSF, è stata a sedici anni una giovane campista, impegnata nelle raccolte sul camion – «non sono mai stata nella segreteria… non sono riuscita ad arrivare a quel livello, che rimane un obbiettivo non raggiunto», è stato il suo esordio emozionato di fronte ai ragazzi del campo – con la mamma arrabbiata che sosteneva che passando da una casa all’altra e in mezzo alla polvere, si sarebbe sicuramente ammalata. «Ebbene sì, un po’ mi sono ammalata, perché in certi luoghi ci si contamina: alcune idee, alcune formazioni, alcuni incontri con le persone sono molto contagiosi e una volta che ci si è contagiati non ci si libera più. Quindi attenzione… che anche voi siete a rischio contagio da queste idee».
Non volendo focalizzare troppo l’attenzione su di sé e su MSF, anche nel raccontare i primi incontri con realtà lontane, arrivate dopo la contagiosa esperienza del campo e non solo – il Brasile di don Leo Commissari conosciuto grazie al Centro Missionario Diocesano, il Kambatta in Etiopia dove operava come medico padre Leonardo, la stessa Angola, dove con MSF fu impegnata come medico durante la guerra e poi il Pakistan e tutti gli altri luoghi che sono seguiti – Monica si è limitata a richiamare rapidamente il tipo di attività svolta, per poter lasciare tutto lo spazio possibile al dialogo con i ragazzi. Dialogo che puntualmente è iniziato subito, stimolato dal tema della sofferenza – grazie a una esperienza di volontariato estivo in spiaggia con persone disabili e terminali da aiutare per entrare e uscire dall’acqua – sbocciata in una domanda semplice e complessa: «Nella tua esperienza hai incontrato tante situazioni di sofferenza… hai incontrato delle sofferenze che hanno dato frutti belli?». «Temo che vi deluderò un po’, ma parlare di sofferenza non è facile… Quando sono stata in Angola il lavoro in oncologia pediatrica è stato molto molto duro e mi ha portata in contatto con la sofferenza estrema, costringendomi a farmi tante domande, ad arrabbiarmi per le ingiustizie, e l’unico relativo “balsamo” era cercare di fare tutto quello che era possibile a livello sanitario: certo la medicina non fa miracoli, ma tutto quello che era disponibile si faceva.
La violenza con cui si doveva convivere era enorme, con militari che nel tentativo di violentare una donna erano capaci di uccidere l’infermiere e l’autista della nostra ambulanza, chiamata per soccorrere la poveretta ferita o gli sfollati dei villaggi interni, i più vulnerabili feriti con il machete che arrivavano al pronto soccorso per essere curati, in un silenzio agghiacciante… che amplificava la sensazione di ingiustizia, perché tutta quella violenza era provocata dall’immensa ricchezza nascosta nel sottosuolo angolano, dal petrolio ai diamanti all’oro, che finiscono nei nostri mercati. Sono ingiustizie che conosciamo, non sono nascoste. Quando arrivavo la mattina in reparto e mi dicevano che nella notte erano morti otto bambini perché non c’era la luce e non era stato possibile fare le flebo mi sentivo impotente e senza risposte, mentre la rabbia aumentava e la fede traballava… Ancora adesso continuo a non avere risposte, se non quella che mi davo allora: “io sono qui, sono un dottore, e faccio tutto quello che posso fare e che riesco a fare, senza costruire barriere, accettando di farmi contaminare dalle persone che incontro e contaminandole a mia volta”. Pur sapendo che una risposta non l’ho – al di là dell’esserci – ciò che conta è tenere le orecchie aperte, gli occhi aperti, i pori aperti, il cuore aperto, la testa più aperta possibile per dire alle persone più vicine “state attente, se mi chiudo ditemelo”, perché di fronte a sofferenze così forti la tentazione di chiudersi è grande. Dopo tanto tempo, ci sono aspetti dell’esperienza in Angola di cui non riesco ancora a parlare, perché dei pazienti che vanno bene ci si ricorda per un po’, mentre quelli che non vanno bene ti rimangono dentro per sempre, come una spina. Ricordate: più ci si apre all’esperienza – ed è quello che state vivendo anche voi qui, adesso, al campo – man mano che ti entra dentro, più dobbiamo fare i conti con la sofferenza. Però, secondo me, non c’è un’altra strada, se non quella di esserci, di contaminarsi, di vivere assieme…».
Ogni malato, a qualsiasi latitudine
Dopo il confronto con la sofferenza, ascoltato quasi in religioso silenzio, sono arrivate le fragilità, con la domanda delle domande: «Nell’affrontare situazioni tanto difficili, sei riuscita a fare leva su una tua fragilità per trovare la spinta giusta nelle scelte che hai fatto, come ad esempio fare il medico?». «Quanto tempo avete per le mie fragilità?», ha risposto sorridendo Monica, sottolineando che le era più chiaro perché si era pensato a un incontro di un paio d’ore e non alla classica mezz’ora di attenzione sicura. «La professione che ognuno sceglie ne esprime la personalità e chi sceglie di fare il medico e poi entra in Medici Senza Frontiere deve avere un ego ipertrofico. Essere operatori della sanità aiuta da questo punto di vista, con aspetti positivi e altri negativi, per l’importanza del tipo di attività che si è chiamati a svolgere. D’altra parte, per qualsiasi persona malata non conta se il medico sia di destra o sinistra, di pelle bianca o nera, ma che sia in grado di curarla; per questo, l’accesso alle cure è qualcosa che ci deve unire tutti e non è pensabile, dal mio punto di vista, che non si tenda la mano a qualcuno che soffre, al di là del colore della pelle, della provenienza, della lingua...
Ci sono principi umanitari che non sono legati al credo religioso, ma al fatto che siamo umani e non possiamo accettare che siano ignorati: l’accesso alle cure – che siano i progetti di MSF o la vostra idea di una ambulanza in Etiopia – è la base, perché tutte le ferite fisiche o mentali devono trovarci pronti all’aiuto… Pensando alle fragilità, devo ritornare all’Angola e a quelle situazioni che faccio fatica a raccontare, perché ancora dolorose, con scelte tra la vita e la morte che ancora mi tormentano e che, una volta uscita dall’ospedale, mi portavano a piangere per ore, finché non sono riuscita a dirmi che siamo gocce in un mare di bisogno, siamo vapore acqueo, siamo quello che siamo, con le nostre fragilità, ma tutto quello che possiamo fare dobbiamo farlo, consapevoli che non possiamo fare tutto. Ricordatevi che quello che conta sono le scelte che facciamo in ogni situazione, in definitiva se esserci o non esserci, sentirci responsabili o no»,
Il dialogo è proseguito toccando la paura che si mescola col sogno di mettersi a disposizione di chi ha bisogno o i dubbi sulla possibilità di far convivere il lavoro e la famiglia, fino agli equivoci di fondo come la convinzione che l’Africa abbia bisogno di noi: tutti abbiamo bisogno di tutti e tutti abbiamo bisogno di giustizia, di riconoscimento dei diritti, di condivisione.
«Quello che le persone percepiscono, in Italia come in Angola, in Pakistan e in Libia, è come fai le cose: se cerchi di dare e fare tutto quello che puoi viene colto perfettamente e se anche siamo una infinitesima goccia in un mare di bisogno – al di là delle capacità che può mettere in campo una struttura come MSF, con la presenza in più di settanta paesi al mondo, la nave più grande impegnata nei soccorsi nel Mediterraneo – la nostra goccia è importante e come facciamo le cose fa la differenza». Al campo come ovunque ci troviamo.