In ogni epoca, tanto nella comunità civile come in quella ecclesiale, la riflessione sull’educazione delle nuove generazioni (paideia) rappresenta una costante sfida per la quale non esistono prescrizioni o formule efficaci se non la costante attenzione e dedizione da parte di madri e padri consapevoli del loro ruolo formativo.

a cura della Redazione di MC

 Al modo di papa Francesco

La formazione dei candidati al sacerdozio: una riflessione a partire dal magistero di papa Francesco 

di Maurizio Guidi
docente di NT alla Pontificia Università Gregoriana, Roma; responsabile della formazione nello Studentato Teologico dei Frati Minori Cappuccini dell’Italia nord-occidentale di Scandiano (RE)

 La tensione educativa di una Chiesa missionaria

Una comunità che non si curasse più dell’educa­zio­ne non solo smetterebbe di investire sul proprio futuro, ma rinuncerebbe a prendere coscienza di se stessa, rinchiudendosi in un pericoloso ed egoistico consumismo del presente.

Il magistero di papa Francesco, dagli interventi ufficiali a quelli più feriali, è disseminato di attenzione educativa. Tale interesse non nasce semplicemente dal cuore di un pontefice attento ai giovani, ma da un profondo interrogativo sull’identità della Chiesa che il papa individua nel suo carattere missionario. La Chiesa riconosce la sua indole più profonda nell’essere per gli altri, nel porsi in relazione ad altro da sé in una disinteressata attenzione al mondo degli uomini.
È da questa prospettiva che papa Bergoglio rilegge l’impegno formativo all’interno del tessuto ecclesiale. Se la comunità dei chiamati (ekklēsia) ritrova la propria identità nel suo essere in favore degli uomini, allora il cammino, le attese, i sogni e le scelte dei discepoli dovranno essere innervati da questa costitutiva apertura. Così è anche per quei discepoli che, per grazia di Dio, percepiscono la chiamata a farsi fratelli responsabili (presbyteroi) in favore di una comunità.

 Due documenti significativi

Tra i molti interventi di papa Francesco, due trattano in modo specifico la formazione dei presbiteri: Il Dono della Vocazione Presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis (DVP); e il Proemio alla Veritatis Gaudium (VG) circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche. Il primo documento, apparso nel dicembre 2016, presenta un testo maturo che, oltre ai contenuti, manifesta la sua significativa novità nella modalità sinodale che lo ha generato. Il secondo, del luglio 2018, pur diretto solo all’impianto degli studi ecclesiastici, rivela il modo dirompente con cui il pontefice porta avanti la riforma della Chiesa. Ad un documento che si presenta in perfetta linea con i suoi precursori (cf. Sapientia christiana) il papa premette un Proemio di indole apocalittica, richiedendo un deciso e coraggioso cambiamento di rotta che non può più essere procrastinato.
Senza alcuna pretesa di completezza, provo a rileggere le suggestioni magisteriali di papa Francesco intorno a tre termini o ambiti mediante i quali la riforma richiesta dal pontefice può divenire attuale: missione, famiglia, discernimento.

 L’educazione al discepolato e la missione della Chiesa

Al cuore di una Chiesa missionaria, preoccupata di «andare», e non di conservare le proprie strutture, sta per il vescovo di Roma l’educazione al discepolato. Riprendendo l’insegnamento conciliare (Optatam totius), papa Francesco ribadisce quanto l’inquietudine pastorale debba permeare l’intero cammino dei candidati al sacerdozio. Tale tensione dev’essere esplicitata fin dall’inizio della formazione per non suscitare desideri e attese non congrue al traguardo da raggiungere. Aver ben chiara la meta - essere parte di una Chiesa che è per gli altri e non ricerca se stessa - è determinante nel modo di approcciarsi tanto agli studi quanto ad ogni esperienza formativa.
Con forza Bergoglio richiama a guardarsi bene dal mettere in campo strutture formative e pastorali «di ghetti e per i ghetti» (Discorso del 16.06.16) al fine di educare i discepoli a «guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, e ad andare incontro alle necessità della Chiesa intera, pronti nel loro animo a predicare dovunque l’evangelo» (VG 2).
L’apertura richiesta si sposa poi con una formazione che deve promuovere uno sviluppo «integrale», di tutto l’uomo e per tutti gli uomini. A tal fine, occorre favorire percorsi che suscitino una reale maturazione umana e affettiva, senza la quale non può esserci annuncio gratuito del vangelo.
Alla luce del mandato missionario di Matteo che vede il compito della Chiesa specificatamente indirizzato a «educare gli uomini al discepolato» (Mt 28,19), papa Francesco richiama più volte i pastori alla sequela quale categoria fondamentale per la propria autocomprensione. Il sacerdote non è che un discepolo permanentemente in cammino con il compito di far sperimentare ad altri, come per immersione (battizō), l’amore di un Padre che ci accoglie nell’intimità della sua casa (Padre, Figlio, Spirito). In questo incessante percorso educativo si inserisce tanto l’iniziale formazione al presbiterato, quanto la continua crescita che deve caratterizzare la vita del pastore. La formazione iniziale non è che il tempo più breve di questo itinerario e tuttavia tappa necessaria affinché si acquisisca uno stile generale che permetta di incamminarsi incessantemente dietro al Messia.

 Il calore di una famiglia

Dal momento che la vocazione è una chiamata ecclesiale orientata al servizio del popolo, il percorso formativo non può non avere carattere comunitario, sia per il formando che per gli educatori che lo accompagnano (DVP 132-139). Educare è un evento familiare che unisce le generazioni. Come tale non è demandabile al singolo e neanche può essere concepito come compito a termine. Esso coinvolge incessantemente le dinamiche di ogni famiglia ecclesiale. I formatori divengono maestri a due condizioni: che si rivelino quali discepoli costantemente in cammino; che si mostrino pastori totalmente dediti al loro gregge. È nell’ambito della comunità formativa, infatti, che l’educatore deve vivere la sua vocazione presbiterale; questo è il suo popolo di riferimento, il gregge che gli è affidato. Di questo gregge, non di altri, deve assumere l’odore.
Nell’ottica di papa Francesco, gli educatori sono coloro che passano al fratello il fuoco del vangelo, l’inquietudine per la giustizia, la passione per l’uomo, su cui il discepolo dovrà esporsi, richinare, fare le proprie scelte.

Il discepolo che percepisce la chiamata al ministero non deve essere “istruito” alle buone maniere o all’amministrazione di specifiche funzioni («fare discepoli» è pessima traduzione del verbo mathēteuō di Mt 28,19 che orienta piuttosto ad una complessa e incessante dinamica), ma «immerso» in un ambiente familiare capace di testimoniare una storia fatta dalla catena di molteplici generazioni di discepoli che si sono lasciati plasmare dalla parola evangelica.

 L’inquietudine del discernimento

Al fianco di una vita tesa all’annuncio dev’essere collocata anche la formazione accademica, richiesta dalla trasformazione missionaria di una Chiesa in uscita (VG 3). Un cambiamento che il pontefice non esita a qualificare come «rivoluzione culturale non rinviabile» volta a proporre una lettura evangelica del reale, capace di non appellarsi a sintesi astratte e scevre dalla «carne» di cui è costituito l’uomo (Gv 1,14). Il vero discernimento evangelico porta a interrogarsi continuamente sulla volontà di Dio mentre si percorrono le vie, mai diritte, dell’esistenza umana. «Il teologo - afferma il papa - che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio» (VG 3).
Tanto la teologia, quanto la fede di ognuno è all’altezza del proprio compito quando ha il coraggio di vivere sulla frontiera, senza ripararsi dietro lo schermo di verità costruite a tavolino. Ciò che è da temere è piuttosto una fede senza sfide, una fede che si ritenga completa, non bisognosa di altro e di altri. La capacità di discernimento, cioè la disposizione strutturale a sapersi mettere sempre in gioco con le cangianti realtà della vita, è la riprova di un cuore forgiato dallo Spirito e giunto a piena maturità umana e affettiva.
Educare, pertanto, non è formattare gli uomini ad un cliché di buone maniere, ma fare dell’inquietudine evangelica il motore della propria esistenza. A questi discepoli-pastori la Chiesa demanda il compito di accudire il gregge di Dio.

 La sapienza dei numeri secondi

Nell’ottica del discernimento, il magistero di papa Francesco sulla formazione dei presbiteri non presenta tanto soluzioni concrete da intraprendere quanto stimoli per un cambiamento volto a mettere in gioco ognuno innanzi ad un vangelo da annunciare ad ogni livello. Molte di queste suggestioni sono facilmente intuibili nei passaggi che abbiamo sopra delineato. Una, invece, può essere letta tra le righe e merita, in ultima battuta, di essere esplicitata. Si tratta della sapienza dei numeri secondi. Quella sapienza che struttura l’intera rivelazione biblica dall’elezione del piccolo Israele - non certo un numero primo nel panorama geopolitico dell’anti­chità - fino a giungere a Gesù Cristo, pietra secondaria per la sapienza di chi desidera costruire secondo la logica della potenza umana.
Gli interrogativi che spesso si pongono a un educatore circa l’andamento delle case di formazione sono relativi al calo delle vocazioni; come mai siano così poche e come poter ovviare a questo problema. Anche fuori dall’ambi­to formativo poi, diocesi o province religiose riprendono la questione in termini di personale necessario per mantenere determinati servizi.
Certo interrogarsi sulla propria fecondità e sulla significatività evangelica è cosa santa per una chiesa. Mi chiedo tuttavia se la risposta a queste domande spetti a chi vive nel presente e debba, bene o male, tradursi prevalentemente in termini numerici. La mia mens di esegeta, nonché di formatore, mi porta ad interrogarmi su quale precomprensione ermeneutica stia dietro ad una domanda, così posta, sul calo delle vocazioni. Diminuzione a partire da quale standard di riferimento? Forse dal desiderio di avere un numero congruo di presbiteri tale da poter mantenere strutture e opere ecclesiali alle quali siamo abituati? Organismi e consuetudini che, se non fosse per una costrizione esterna, non vorremmo mai cambiare?
E se invece la povertà di pastori fosse, insieme ad altri, un dato - oso dire un segno dello Spirito - da prendere in seria considerazione? Se tutto questo fosse uno stimolo evangelico verso la minorità, vocazione imprescindibile di una Chiesa in uscita da se stessa, chiamata ad essere lievito invisibile e non pasta, minuscolo seme e non regno?
Ciò che è posto nelle mani dell’uomo è sempre poco e insignificante. La sapienza biblica ne è consapevole. I due pani e cinque pesci appaiono totalmente insufficienti nel giudizio dei discepoli. Eppure, quel poco, se condiviso senza calcoli, in una logica mossa unicamente dal dono, per grazia di Dio diviene sovrabbondante anche per le moltitudini.
Non voglio certo suggerire soluzioni ireniche né disincarnate su un interrogativo che certamente ci sorpassa. Tuttavia, mi pare utile aprire visioni diverse sulla realtà che stiamo vivendo; essa è sempre superiore alle nostre idee (EG [Evangelii Gaudium] 233).
Non di meno, occorre ammettere che anche la logica dei numeri ha avuto indirettamente i suoi benefici, costringendo diocesi e istituti religiosi a porsi in dialogo tra loro, ad aiutarsi vicendevolmente, talvolta ad unirsi, anche per portare avanti l’azione formativa dei propri membri. Ma anche qui, credo possa incombere una latente deriva. Occorre chiedersi se il ritrovarsi insieme non sia ancora una volta un modo per esorcizzare la povertà percepita, dandosi l’illusione di essere forti. Illusione che si dissolverà come nube mattutina al momento che, terminato il breve percorso della formazione iniziale, si tornerà alla propria realtà quotidiana. È questo, il quotidiano letto alla luce del vangelo, il punto da cui partire per discernere percorsi realmente educativi alla vita e per formare pastori di una Chiesa che non può più tardare nell’assume­re la sua connaturale vocazione alla minorità.