Attraverso ferite. 800 anni dopo l’impressione delle stimmate di san Francesco d’Assisi, sarà questo il tema che farà da filo conduttore alla nuova edizione del Festival Francescano, che si terrà dal 26 al 29 settembre 2024 a Bologna.

a cura dell’Ufficio Comunicazione del Festival Francescano

 Ripara l’arte!

La speranza è la prima a farti vivere 

di Elisa Bertoli
social media manager per Festival Francescano 2024

 Un tema che parla subito di sofferenza – sia fisica che interiore, e non solo – ma che vuole invitare ad andare oltre,

perché solo così è possibile dare un senso al dolore, e la crisi può diventare davvero un’occasione di apertura e di cambiamento. Attraversare la sofferenza, quindi, perché le ferite diventino feritoie. Ma anche ascoltarla e prendersene cura, sia che sia nostra o altrui. Perché – come spiegano alcuni membri del comitato scientifico del Festival – la risposta alla domanda di senso che riguarda da sempre la sofferenza non può che essere concreta, ed esplicitarsi nella cura vicendevole.

 Feritoie per il futuro

«La ferita è sempre un appello a prendersi a cuore l’altro: è un appello alla solidarietà, alla vicinanza, alla prossimità, al prendersi cura, alla tenerezza, al rispetto, all’accoglienza, e a volte anche alla segretezza e all’intimità». Antonio Scabio, frate minore che è anche psicologo e psicoterapeuta, ricorda come le ferite siano «luogo di dolore, ma anche luogo di guarigione: luogo di esperienza della vita per la sua parte più sofferta, ma anche per la sua capacità di rinascita. Perché la vita si fa sempre strada, trova sempre la via per mostrare tutta la sua bellezza anche nella sua debolezza. Parte da queste premesse la celebrazione della vita anche nei suoi aspetti più fragili, più feriti». In questo senso, secondo il frate minore, la prossima edizione del Festival Francescano sarà un’occasione per «aprire feritoie che diano visioni di speranza, visioni di futuro».
Per Michela Marzano, filosofa, saggista e scrittrice, quello di quest’anno è un tema «particolarmente difficile e delicato, interessante e fondamentale. Se partiamo infatti dal presupposto che la condizione umana è una condizione ferita, caratterizzata dalla vulnerabilità e dalle fratture, si capisce l’importanza di parlare delle ferite che ci vengono inferte o che possiamo noi inferire, così come – più in generale – delle ferite dell’esistenza». Secondo la celebre filosofa, «ci sono ferite che ci portano a chiuderci, altre che invece ci aprono perché ci costringono a fare i conti con ciò che noi siamo e anche con ciò che noi non siamo, e poi c’è talvolta la ferita della relazione: delle relazioni che si interrompono o delle relazioni che nascono, si creano e curano. È in questo secondo caso che le ferite si rimarginano». Secondo Marzano, che è professoressa di filosofia morale all’Université Paris Descartes di Parigi, la domanda fondamentale è allora questa: «Che cosa vuol dire guarire? Da cosa esattamente dobbiamo guarire noi essere umani?». 

 Un varco per il senso

«Da un punto di vista medico – risponde la pedagogista Antonia Chiara Scardicchio – la guarigione è l’eliminazione del sintomo. Se noi invece pensiamo alla storia di san Francesco d’Assisi, così come a tutta la narrazione del vangelo, troviamo al contrario ferite che restano aperte. Nel vangelo scorgiamo quindi una proposta paradossale per la logica umana: accogliere una ferita aperta, per imparare da essa. In fondo, questa è la croce come esperienza di travaglio, che è sia dolore che generatività». Per Scardicchio, che è professoressa associata di pedagogia generale e sociale presso l'Università degli Studi di Bari Aldo Moro, occorre quindi un cambio di mentalità: «dal guarire dalle ferite al guarire attraverso le ferite. Il passaggio paradigmatico è proprio questo: la ferita come cura, come varco. Altrimenti il rischio è cercare Gesù come si cercherebbe qualsiasi altro venditore di guarigione intesa come cancellazione del sintomo. Invece la guarigione che Lui ci propone non è la cancellazione della ferita, ma il rivestimento di senso di quella ferita». In concreto, si tratta di non intendere la preghiera «come un dire o un fare, ma come una postura contemplativa. Non “Signore, scampami da questo male, guariscimi magicamente, dammi il superpotere della forza”, bensì “che cosa posso imparare da questo varco? Che cosa c’è dentro questa feritoia che tu mi vuoi insegnare e io posso ri-vedere? Consentimi di trasformare questa ferita in feritoia, di imparare ciò che solo attraverso questa ferita posso imparare”.

Solo così possiamo imparare a concepire la ferita come qualcosa da trasformare in apprendimento o addirittura in forma di sapienza: ferita come apertura alla relazione con l’altro, ma anche con l’eternità. Perché, proprio come ha fatto san Francesco, se io guardo alla mia vita dall’eternità, allora posso risemantizzare la ferita come possibilità di cercare l’eterno, cercare ciò che non passa in questo tempo in cui vivo. Non è masochismo, ma una forma di moltiplicazione: considerare la ferita una chiamata
da attraversare al buio per scendere negli abissi e vedere quello che altrimenti non si vedrebbe. Un’esperienza di luce nel buio». Conclude Scardicchio: «Anche nella letteratura scientifica ci sono delle produzioni incredibili sul ruolo dell’imperfezione nell’evoluzione: se non ci fossero imperfezioni ed errori, la vita sarebbe finita molto tempo fa. E questo a dirlo sono gli scienziati esatti, non i filosofi o i pedagogisti». 

Portatori di nuova bellezza

Allargando lo sguardo alla società, «colpisce prima di tutto la ferita della relazione tra la generazione adulta e le nuove generazioni. Una ferita mortale» secondo Roberto Mancini, professore di Filosofia teoretica presso l'Università di Macerata, «perché rischia di chiudere completamente lo spazio, il futuro, alle generazioni nuove, cioè alla società intera. Finché non ci sarà una nuova alleanza con le generazioni nuove, un’alleanza che ci permetta di accompagnarle senza legarle né sostituirci a loro, questa rimarrà una ferita profonda nell’umanità contemporanea». Mancini pensa poi alle «ferite tra coloro che hanno subito un torto e coloro che l’hanno commesso, e non solo nel mondo penale, ma anche nelle relazioni tra i popoli». E ancora al «rapporto tra Africa e Europa, una ferita pluricentenaria che non stiamo curando, bensì aggravando». E infine «all’Europa ferita, un progetto politico che non corrisponde più al sogno europeo di alcune decine di anni fa». Tre esempi che dicono che anche la società e il pianeta in cui viviamo hanno bisogno di cura.
Pensiamo ad esempio alle ferite «dell’ambiente, della fraternità e dell’esclusione» che elenca Gilberto Depeder, francescano conventuale, teologo. Che cita però anche un’altra parola chiave: «Kintsugi, l’arte di riparare le ferite con l’oro. Perché le ferite che ci hanno segnato ci rendono unici, portatori di nuova bellezza. In questo senso la fragilità diventa dono».

 

 

I COLORI DEL FESTIVAL FRANCESCANO 2024

Viola, rosso, pesca. Sono questi i tre nuovi colori pronti ad accompagnare i partecipanti alla nuova edizione del Festival Francescano, che si terrà a Bologna dal 26 al 29 settembre 2024. Un’edizione dedicata stavolta alle ferite che (si) aprono, nell'anniversario delle stimmate di san Francesco.
Perché proprio questi colori? Nella liturgia, il viola richiama l’attesa, il rosso la passione di Cristo, ma al centro c'è sempre la fraternità, simboleggiata dalla tonalità pesca eletta a colore dell'anno. Come riportato dal sito di Pantone, infatti, questo colore «comunica un messaggio di amore e condivisione, senso di comunità e collaborazione. Sfumatura color pesca compassionevole e inclusiva che mette in risalto il nostro desiderio di solidarietà verso gli altri, di momenti di calma e di sentimenti di protezione suscitati. Peach Fuzz 13-1023 presenta un nuovo approccio alla gentilezza. Una tonalità pesca piacevole, a metà strada tra il rosa e l'arancio, che ispira sentimenti di appartenenza, nuovi equilibri e un'opportunità di prendersi cura di sé, calmarsi e trovare i propri spazi in cui prosperare e migliorarsi».