Come nel mio Regno
La libertà interiore di Francesco si sprigiona e si svela nel Cantico di frate Sole
di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC
Il Cantico di frate Sole di san Francesco, straordinario esordio della letteratura italiana, quest’anno compie ottocento anni.
Un articolo sarebbe insufficiente per un commento puntuale del testo. Approfitto qui del centenario, per verificare quali tratti della libertà evangelica dell’autore vi si possano rintracciare. Intanto la sua è una libertà profondamente esperienziale, diventa cioè veramente apprezzabile se ricollocata nel concreto della sua storia personale. Nella primavera del 1225, frate Francesco è afflitto da un impressionante cumulo di malattie dipendenti, probabilmente, dalla malaria contratta e cronicizzata nella piana di Assisi, zona allora insalubre, dove, per stare con i lebbrosi, è stato spesso, dal giorno della sua conversione in poi.
Quasi totalmente cieco, a fatica sopporta le fonti luminose, i suoi occhi sono perennemente bendati. Secondo i dettami della dottrina medica del tempo, per interrompere la lacrimazione inarrestabile, è stato sottoposto a cauterizzazione dall’orecchio alla tempia. La cella in cui sta a San Damiano, racconta la Compilazione assisense, era infestata dai topi che gli rendevano difficile il riposo e la preghiera. Alla Verna nel settembre del 1224 ha ricevuto le stimmate, inedito segno di consolazione che lo confermano nella scelta di restare con tutti i suoi frati, nonostante la fatica a comprenderli e ad accoglierli; anch’esse, tuttavia, gli provocano dolore. Si trovava ora di fronte all’ultimo e più radicale passo di conversione a Cristo: consegnare a quei fratelli, fino in fondo, senza condizioni o pretese, l’ordine religioso nato dalla sua esperienza di vita evangelica.
In questa molteplice sofferenza sembrerebbe lecito chiudersi a riccio o approfittare della propria esperienza mistica per rendersi irraggiungibile. Lui, invocato l’aiuto del Signore, riceve questa risposta: «Allora, fratello, sii felice ed esultante nelle tue infermità e tribolazioni; d'ora in poi vivi nella serenità, come se tu fossi già nel mio Regno» (FF 1614). Raccoglie la sfida e si mette a comporre e cantare la lode della fraternità cosmica e universale. Questa disponibilità è un insuperabile manifesto di libertà evangelica: la libertà di chi prende su di sé ogni giorno la propria croce e rimane alla sequela di Cristo anche quando la Resurrezione è sperimentabile, sì, ma solo nella penombra della fede.
Una libertà relazionale
La libertà di frate Francesco è relazionale. Egli vive le relazioni come bene prioritario nell’estensione più ampia possibile. Nella Regola bollata aveva così esortato i suoi frati: «siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene» (Rb III, FF 84). Perciò decide di usare la lingua del popolo, il volgare, e non il latino che per molti era di difficile comprensione. Poco importava che nessuno l’avesse mai fatto prima di lui, la sfida di dare espressione alla meraviglia estatica che gli era entrata in cuore, gli imponeva l’urgenza di dire, anzi di cantare, la lode con le parole della convivialità vernacolare più aperta ed accessibile. L’obbedienza a Dio che l’aveva condotto prima tra i lebbrosi e poi nell’accampamento dei saraceni, ora valeva bene il prezzo di una trasgressione sociolinguistica.
La stessa libertà relazionale è manifestata dall’attenzione con cui frate Francesco alterna elementi maschili (sole, vento, focu abbinati al sostantivo frate) e femminili (luna, acqua, terra abbinate al sostantivo sora). La differenza sessuale appare qui come un asse strutturante la simbologia di tutta la creazione. La sua castità non è anestetizzazione dei sensi, ma umanizzazione che moltiplica le possibilità di incontro solidale; la povertà non rinuncia ai beni del mondo, ma afferma gioiosa di aver ricevuto da Dio ogni dono come sacramento del suo amore; l‘obbedienza non fugge le responsabilità che derivano della libertà personale, ma accoglie la realtà così come essa è per lasciarsi coinvolgere nell’azione trasformante di Dio.
Decisamente appropriato a questa spiritualità attribuire alle creature virtù e sentimenti umani, per cui frate focu è detto robustoso, forte e perfino iocundo. Sor’Acqua non è definita soltanto multo utile e pretiosa, ma anche umile e casta. Ciò impone di guardare con intelligenza al verso di Sora Luna e le stelle: / in celu l’ài formate clarite e registrare la possibilità che con questo aggettivo, clarite, frate Francesco abbia voluto, pudicamente, alludere anche alla sua pianticella, Chiara, e alle Sorelle povere del monastero di san Damiano, presso il quale si trova mentre scrive il suo inno di lode. Significativamente l’uomo nella sinfonia del Cantico prende voce in quanto disponibile a portare in pace il peso della propria fragilità sofferente e a perdonare per lo Tuo amore.
L’unità della creazione
Quella di Francesco poi è una libertà teologica, che vola alto, non rimanendo intrappolata nelle contrapposizioni di cui la fede dei suoi contemporanei è vittima. Molte volte si è detto che il Cantico contiene un’implicita polemica contro il dualismo dei catari. Per loro tutto ciò che è materia fu creato da un dio malvagio e perciò è inevitabilmente causa di inganno per gli uomini; solo ciò che è spirituale fu creato da Dio e può condurre a Lui. Si deve ricordare anche che Innocenzo III, il papa che dà conferma orale al primo abbozzo di regola che nel 1209 frate Francesco e i primi compagni gli presentano, aveva scritto un’opera intitolata De contemptu mundi, in cui si cercava di motivare i lettori alla sequela di Cristo, sottolineando tutto ciò che nella creazione, al di là di una superficiale apparenza di ingannevole bellezza, risultava inconsistente o ripugnante e, dunque, non meritevole di troppe cure. Tanto basta per affermare che il dualismo cui si oppone Francesco non è un’esclusiva delle sette ereticali, quanto una patologia spirituale che affliggeva, con diversa intensità, molti settori del cristianesimo compresi quelli più ortodossi. Francesco, in ogni caso, dà voce alla sua esperienza di fede con un canto di lode tutto rivolto al Creatore e non polemicamente ai suoi interlocutori.
Nella creazione, partendo dalla relazione solidale e fraterna che fa della creazione un’unità sinfonica che accoglie come essenziale la differenza di ogni cosa, l’uomo ha il ruolo di cogliere la significazione di cui ogni cosa è portatrice. Significazione che è segno della dignità che ogni cosa ha in sé stessa e, allo stesso tempo, dell’apertura verso il di più di Dio che è presente e agisce fecondamente nel mondo.
Le lodi al Creatore
Sulla spiritualità dei padri del deserto osserva Maria Ignazia Angelini: «il senso di essere solo una creatura plasmata dalla mano di Dio e incessantemente rigenerata dalla sua grazia a nuova innocenza fa maturare nei monaci del deserto il senso di una particolare […] solidarietà con le creature, tale da leggere in tutto una traccia dell’alleanza di Dio e da specchiarsi nella propria avventura spirituale nelle vicende di ogni essere vivente, comincia a intessere il linguaggio della misericordia. I monaci si sentono pareggiati agli esseri infimi e accanto a loro riguardati da quella misericordia elementare costituita dall’acqua, dal sole, dalla terra, dal fuoco, elementi che permettono loro di vivere».
Ritroviamo le tre note della libertà di Francesco, esperienziale, relazionale e teologica, andando al messaggio centrale del cantico. Nullu homo ène dignu Te mentovare, nessun uomo, cioè, è degno di nominarti, e questa indegnità è onestamente sperimentata e riconosciuta, per cui si rivolge direttamente al Signore, altissimu, onnipotente e bon, per chiedergli che per mezzo dei suoi doni, sustentamento per la nostra vita, Lui stesso sia lodato. La preposizione per nel Cantico va intesa, infatti, come “per mezzo di”. Ogni creatura, infatti, opera delle sue mani, è lode per lui, essendo semplicemente ciò che è.
Tue so’ le laude, sosteneva Giovanni Pozzi, grande critico letterario e frate cappuccino svizzero, può significare non solo che esclusivamente a Lui le lodi devono essere attribuite, ma anche che solo a Lui è appropriato il ruolo di lodante, infatti: «Egli è la lode per tutti i suoi fedeli» (Sal 148,14).