Maura entra nel mio ufficio come un turbine di vento. Ha una pila di cartelle sul braccio: sta per scendere al centro d’ascolto dove una fila di persone l’attendono per parlarle. Il suo sguardo è ardente, infuocato. Direi che è quasi risentita. Qualcosa le brucia dentro e le fa male. È tesa e la preoccupazione le tinge la voce: «Senti, sono molto preoccupata per il tema del prossimo tè: la sobrietà. Ho paura che sia un argomento troppo delicato per i nostri amici. Troppo difficile. Questo tema non mi piace: come si fa a parlarne con loro senza ferirli, senza offenderli?»

a cura della Caritas di Bologna

 Quando dico “sobrietà”

Un universo di emozioni e concetti scuotono il nostro cuore, avvicinandolo a Dio 

Fuori le idee

La domanda resta appesa al mio silenzio riflessivo. Prima che il silenzio si trasformi in imbarazzo, Maura mi soccorre: «Ci ho pensato un po’ su. Forse un modo c’è per aiutarli. Potremmo partire proponendo di comporre un cartellone ed invitando ciascuno a dire cosa ha in mente quando sente la parola “sobrietà”.

Così forse aiuteremmo anche chi non conosce troppo bene l’italiano e questa parola neanche sa che significa. Tu che ne pensi?». Ovviamente sono d’accordo, ma più ancora sono incantata dalla passione impetuosa di questa donna. Osservandola uscire dalla stanza a passi veloci e decisi verso la sua faticosa mattinata di colloqui, mi sorprendo a pensare che senza quell’impeto rovente nascosto nel cuore, nemmeno la migliore delle idee potrebbe funzionare.
Il pomeriggio del tè comincia. La brocca fumante è sul tavolino e noi intorno, seduti. Volti conosciuti e volti nuovi si sorridono studiandosi a vicenda. Guardo Maura: pur essendo affabile con tutti, è concentratissima e un po’ tesa. Ha voglia di cominciare; ormai sappiamo che i primi passi sono i più faticosi: vanno fatti nella direzione giusta. Il cartellone bianco è appeso alla porta e Maura in piedi lancia al cerchio attento la sua proposta. «Tutto chiaro? Ok. Io scriverò qui quello che dite e poi ne riparleremo. Dunque: cosa vi viene in mente quando sentite la parola “sobrietà”? Buttate fuori le idee».
Il primo a parlare di getto è Maurizio che ci spiazza con la sua semplicità intelligente: «Più acqua e meno vino!». Maura ed io ci incontriamo in uno sguardo e ridiamo all’unisono della nostra rigidità mentale. D’incanto si scioglie anche la tensione interna: avevamo pensato esclusivamente al concetto di sobrietà “francescana”, ma i nostri amici sono maestri di vita vera e di ogni cosa riconoscono anche l’altro lato, spesso quello più genuino e diretto; proprio quello che in genere a noi sfugge, complicati come siamo. Possiamo stare tranquille: qui c’è solo da imparare.
Maurizio ci legge nel pensiero e aggiunge: «C’è anche una sobrietà delle parole. Parlare meno e ascoltare di più». Partito lui, gli altri si fanno coraggio: «Sobrietà è essere lucidi». «Non ostentare, essere discreti, avere stile», «Sobrietà è mantenersi capaci di ragionamento». Accanto a me siede una ragazza velata. È la prima volta che prende il tè con noi. Maura approfitta di una pausa per introdurla: «Alya cos’è la sobrietà per te?». «Veramente non so, non conosco questa parola…» il disagio vela le sue parole. «Certo, hai ragione: è una parola difficile. Facciamo così: ascolta tutti e poi ci dici quale dei significati scegli come tuo, ok?». Alya sorride grata ed io con lei: ho appena scoperto che la passione ha un intuito tutto suo.
Il giro continua: «Sobrietà è voler bene a se stessi e agli altri». «Rispettarsi ed essere rispettati». «Umiltà e mitezza». «È autocontrollo». Tocca ad Alya e lei indica senza esitare un signore alla sua sinistra: «Mi piace come ha detto lui». Una sottolineatura compare sotto la scritta: «Rispettarsi ed essere rispettati». Maura ci traghetta avanti agevolmente ora. «Bene, è uscito proprio un bell’arcobaleno di significati. Ripartiamo da qui».

 Il sinonimo della virtù

È ancora Maurizio a rompere il ghiaccio: «A me ora viene in mente la parola “virtù” come sinonimo. Se io bevo meno, giudico meno, parlo meno, insomma se sono più attento a ciò che faccio, alla fine sono anche più contento. Voglio dire: non si tratta di diventare santi, di girare scalzi o robe così… la sobrietà non vuol dire “poco”, vuol dire semplicemente “giusto”». «A me vengono in mente tre persone giovani che conoscevo, morte per l’alcool. La sobrietà per me è un cammino per il benessere. Bisogna sapersi mantenere e dobbiamo tutti migliorare nella cura di noi», dice Maria Rosaria con tono accorato.
«Quando si ha poco, bisogna sempre calcolare, trattenersi, concentrarsi per non sprecare, per arrivare a fine mese» dice Narcisa «per me la sobrietà è la fatica di dover controllarsi sempre…».
«Io sono stato in prigione quasi trent’anni e sono uscito da pochi mesi» dice un signore alto e magro, con la voce vibrante di commozione «ve lo devo dire: vivere fra carcerati e guardie, è come vivere fra bestie. Per me la sobrietà è l’equilibrio che ti mantiene umano quando tutto intorno a te non lo è…». Fabrizio prende la parola: «La sobrietà per me è impegnarsi con la testa ed i pensieri. È essere ottimisti. Significa mantenere la speranza per evitare gli eccessi che fanno male. Se ti butti giù, allora sì, vai incontro all’alcool e alle droghe.»

 Lacrime di compensazione

Improvvisamente la voce ruvida di Vincenzo fende l’aria fra noi con un movimento di sciabola. L’atmosfera muta di colpo e qualcosa si congela. «Io l’alcool l’ho conosciuto, ed è vero: la molla che spinge ogni comportamento è sempre lo stato d’animo. Però non tutti diventano violenti e fanno del male agli altri. Io ho vissuto una grande depressione ma ho sempre cercato comunque di far chiarezza dentro di me. Ad un certo punto mi sono gettato da un ponte perché sapevo di voler morire. Sono stato in coma tre mesi.» Vincenzo prende fiato e osservo Maura: le sue parole le hanno infiammato lo sguardo; gli occhi brillano penetrando il silenzio generale e lo raggiungono. Lui alza la testa e riprende a parlare: «Quando mi sono svegliato in ospedale, ho scoperto che i Servizi Sociali avevano invaso tutta la mia vita. Avevano indagato persino nel mio conto in banca, come fossi un criminale. Non solo non avevo più niente: non ero neanche più padrone di me stesso. Hanno cominciato a dirmi cosa dovevo fare, cosa dovevo pensare, come mi dovevo comportare, dove dovevo abitare, come mi dovevo curare. È questa la sobrietà? No, questa è l’arroganza di chi può tutto! Ci vuole rispetto per le scelte delle singole persone! Non è la parola “sobrietà” che mi fa paura: figuriamoci! Io ho imparato a stare in dormitorio in mezzo a gente difficile e a sopravvivere con 270 euro al mese… no, no, il vero problema per me è la parola “falsità”…».
Come una reazione a catena, un’altra voce tagliente si alza dal cerchio, attirando la nostra attenzione. È Sergio: «Scusate, ma io non sono all’altezza di questo argomento. Io la sobrietà non ce l’ho. Non ho più nulla. Ero bravo nel mio mestiere, il migliore. Avevo un grande negozio di elettronica per l’auto proprio in centro città, poi mi hanno fatto chiudere. Ho perso tutto a sessant’anni. Ora dormo per terra. Le assistenti sociali conoscono ogni particolare dei miei ultimi otto anni: il fatto che ho perso la casa, la famiglia, che bevo, che sono dipendente… e prima? Chi si ricorda di chi ero prima, di chi sono stato per tutta una vita? Non è giusto quando ci guardano e ci trattano solo da poveretti! Allora vi dico che per me la sobrietà vera è quella di non usare il potere per umiliare le persone!» ogni parola di Sergio è spinta fuori con rabbia e con la durezza del dolore compresso. Maura si avvicina rapida mentre lui comincia a colpirsi il viso con il palmo delle mani, ripetutamente, disperatamente: «Vedete queste macchie sotto gli occhi? Sapete che cosa sono? Sono le lacrime che non ho mai saputo piangere!». Senza dire una parola, lei gli appoggia con tenerezza una mano sul braccio. Un tocco leggero, un semplice sorriso e Sergio si ferma, esausto. Sono meravigliata. Mi chiedo come tutta la passione che le riconosco, si sia potuta tradurre in un atto così efficace e lieve al tempo stesso. Mi viene da pensare che esista anche una sobrietà emotiva, fatta di attenzione vera per il bene dell’altro. Mi accorgo che qualcosa di delicato e dolce si è diffuso nell’aria. Poi, inaspettatamente, sento la voce flebile di Alya: «Io mi scuso, proprio tanto… però devo andare dai bimbi a scuola… davvero non posso più restare» Il tempo è corso via velocissimo. «Alya, non siamo riusciti a sentirti: c’è qualcosa che vuoi dirci prima di andare?». Accanto a me la sento tremare: «Io… io sono colpita… è una cosa dolorosa. La loro sofferenza mi ha colpita… la sua signore… tanto, mi spiace così tanto…»; dai suoi occhi fattisi improvvisamente stretti e profondi, escono lacrime enormi come non ho mai visto: sono una pioggia torrenziale, incontenibile. Gocce di compassione come perle brillanti rimbalzano sulle pieghe del velo nero e rotolano giù formando piccoli cerchi bagnati sul pavimento. D’istinto mi verrebbe da allungare le mani per trattenere quel tesoro di misericordia, troppo sacra per cadere a terra. Realizzo così che il Signore è presente e resto travolta da un’ondata d’immensa gratitudine. Riemergo, seguendo la voce di Maura: «Sergio, vede? Alya piange anche le sue lacrime, proprio quelle che lei non è mai riuscito ad esprimere».
Alla fine del pomeriggio non so più cosa sia esattamente la sobrietà, ma so che ha a che fare con la passione, le idee, l’equilibrio, le lacrime, la misericordia, il tè, i nostri amici e il Buon Dio.