L’irresponsabile delle risorse umane

Con un po’ di superbia e qualche delirio di onnipotenza, annichiliamo i nostri veri talenti

 di Alessandro Casadio
della Redazione di MC

 Pranzo di beneficenza

Volevano fare un pranzo di beneficenza. Sarà stata la loro giovane età, unita all’entusiasmo dimostrato per l’iniziativa, acconsentii al progetto, forte del mio ruolo di membro dell’associazione di disabili beneficanda. Del resto, avevano già trovato la sala dove avrebbe avuto luogo la cosa.

Coi tempi che corrono, in cui nessuno dà niente, una location gratuita con annessa cucina attrezzata sembrava una manna dal cielo. Ero già consapevole, all’epoca, della mia totale inettitudine di organizzatore di eventi, ma i proclami delle due giovani, non così tanto giovani da indurti a pensare che non fossero in grado di fronteggiare le difficoltà e già con famiglia (immagine rassicurante), avevano obnubilato il mio scetticismo etico nei confronti di queste iniziative. Mangiare come porci per beneficenza ha tuttora qualcosa che stride. Accantonate le remore, anche per non fare la figura del moralista, ci tuffammo a pieno ritmo nella macchina organizzativa.
Occorrevano volantini: nessuno va ad un appuntamento che non sa che esiste. Trovata la tipografia a basso costo, riflettemmo sul fatto che, per quanto modica, anche questa spesa sarebbe andata ad assottigliare l’ammontare del ricavato. Ma il fine era nobile. Il nostro target erano i portafogli rigonfi di carte di credito pronte a riversarsi telematicamente nel conto corrente dell’associazione, perché ci eravamo procurati, commerciante compiacente, anche la macchinetta per queste transazioni: micca siamo trogloditi. Scoprimmo solo alla fine che tutto questo frullo era stato completamente inutile, dato che gli avventori erano tranquilli detentori di banconote, molti dei quali disabili appartenenti all’associazione stessa e che l’unico versamento effettuato era stato quello dal mio bancomat per provare l’efficienza tecnologica dell’apparecchio. 

L’incubo

Le prime avvisaglie del disastro si avvertirono il giorno che precedeva l’evento. Improvvisamente una delle due giovani si ricordò di un cambio di turno sul lavoro, che l’avrebbe tenuta impegnata per buona parte della mattina successiva, destinata, nelle intenzioni, alla preparazione del pranzo. Una calamità tirò l’altra, in quanto la compagna ammise candidamente che lei non sapeva fare da mangiare e poteva prestarsi solo come aiuto. Insieme realizzarono che nessuno aveva ancora fatto la spesa e che nessuno aveva minimamente idea di quanti sarebbero stati i commensali e di quali fossero le quantità di cibo da approvvigionare. L’incubo si era concretizzato. Seguì un convulso giro di telefonate, in cui si pensò perfino di arruolare un prezzolato cuoco professionista, per poi ripiegare su un ragazzo disoccupato che aveva appena finito l’alberghiera. Vuoi lasciare a mani vuote un giovane disoccupato? Si decise di foraggiarlo con un minimo di salario, che andò ad intaccare ulteriormente il margine di guadagno preventivato. Dal canto suo, sforò anche il budget della spesa, operata da più persone incompetenti, con l’assillo della fretta in diversi supermarket quasi all’ora di chiusura, dopo aver ridimensionato quasi all’essenziale il menù altisonante, velleitariamente compilato agli albori del progetto. Tale cambiamento comportò anche, per scrupoli morali, una riduzione della cifra da richiedere ai malcapitati che avessero avuto l’ardire di presentarsi.
Non furono molti, non so se dire per fortuna, e di ceto medio-basso, quasi tutti appartenenti all’associazione non profit destinataria dei proventi, che si ritrovava, forzando i termini, a depredare i propri soci, fornendo loro, a fronte di una modesta cifra, un pasto di modestissima qualità. Carnefora e carnefice. Per inciso, a conti fatti, non derivò alcun guadagno dall’iniziativa, che voleva essere benefica. Anzi, tutto computato, si dovette far fronte ad un passivo non indifferente, che suggellò in soldoni la modalità del non profit. Uno dei presenti, un signore disabile che sapeva essere sarcastico soprattutto quando non voleva, avanzò l’ipotesi di ripetere l’esperienza, magari con un aperitivo.

Scopro chi sono ergo sum

È così che a volte agiamo, spericolatamente incoscienti dei nostri limiti, assillati dal desiderio compulsivo del fare, illusi di aver sempre la soluzione più giusta e saggia per ogni dettaglio della nostra complessa esistenza. È una sorta di delirio di onnipotenza che offusca la prospettiva da cui leggiamo la nostra vita, impedendoci di cogliere l’entità dei nostri autentici talenti, svilendone di conseguenza l’efficacia e senza riuscire a scoprirne mai interamente la natura. Senza riuscire, pertanto, a collocarli nella loro suprema funzione al sevizio del prossimo. Ed è solo questa condizione che ci può rendere finalmente felici. La sua realizzazione coincide con la nostra, che non è il raggiungimento di uno status elevato nella qualità della vita, ma una ricerca alla scoperta di chi siamo, come siamo fatti, e del modo migliore di porci in relazione agli altri, all’Altro. L’eterna coincidenza tra amare Dio e amare il prossimo.
Questa sindrome del fare, che disperde le limitate risorse umane che possiamo amministrare, lasciandoci spesso un senso di vuoto e di incompiutezza, è molto presente anche nel nostro agire di cristiani, portandoci a organizzare la nostra esperienza ecclesiale come una macchina, il cui rendimento può essere valutato in termini produttivi. Una specie di PIL del cattolicesimo, che porta le parrocchie a fare esami di coscienza solo su base numerica: il monotono ritornello del «ci sono pochi sacerdoti, ci sono pochi cresimandi che proseguono il percorso educativo, ci sono pochi cristiani in chiesa la domenica». Queste assillanti considerazioni fanno sì di mettere sotto pressione la residua percentuale di fedeli, i quattro gatti indotti a un tour de force per riportare a regime il numero delle attività parrocchiali, dimenticando che si può essere eccellenti cristiani anche facendo i buoni papà, le buone mamme, i bravi e coscienziosi lavoratori. Esiste una realtà da amare anche fuori dalle mura della chiesa. Essa, se vuole la C maiuscola, deve allargare il suo orizzonte e modificare qualche obiettivo pastorale, stimolandoci alla ricerca della nostra peculiarità, in prospettiva altruista, senza vagheggiare ingranaggi efficientissimi e vuoti.