Un sorriso e un mea culpa

Semplici considerazioni sulla bellezza del martirio 

di Alessandro Casadio
della Redazione di MC

Logiche da ribaltare

Una delle prerogative che ogni cristiano dovrebbe intenzionalmente perseguire nella sua esistenza è quella del martirio che, insieme alla gioia di mettersi al servizio degli altri e alla capacità di creare comunione con essi, ne traccia la corretta identità.

Rendere la nostra vita un’ininterrotta testimonianza dell’immanenza dell’amore di Dio dovrebbe essere il naturale sviluppo del tempo che ci viene donato. Attenzione, il martirio non è una forma di masochismo che ci induce a ricercare e benedire qualsiasi modalità di sofferenza umana, al punto da trasformarla in opinabile soluzione di salvezza o, come troppo spesso sento vociferare nel sottobosco del pietismo clericale, colpo di fortuna insperato di malati, disabili e contriti. Dovrebbe essere il respiro leggero dell’esistenza, lo zeffiro e il profumo della consapevolezza che, dentro e fuori di noi, rivela in ogni dettaglio la compagnia dell’io con Dio. Da qui l’assoluta tendenza all’allegria che tale certezza reca alla nostra condizione di cristiani. Mentre, se ci pensiamo, nelle prassi come nelle liturgie, alla nostra espressione di fede si accompagna spesso una tetra, quasi angosciante, monotonia. La prima e più urgente cosa da fare per dare lustro al nostro martirio è quella di rispolverare un solare sorriso, ben diverso da quello ipocrita di facciata, che educhi nel tempo la nostra coscienza e induca altri a seguirci sulla medesima strada.
Recriminazioni e lamentazioni, invece, si accumulano con eccessiva frequenza nel tempo ordinario di noi fedeli. Forse per distogliere l’attenzione dalla carenza di sale infuso nella nostra esistenza, siamo pronti a scaricare su un anonimo mondo tutto ciò che in esso non funziona. Dai pulpiti e nelle esortazioni pastorali è ricorrente il proliferare di anatemi contro le macchine sataniche dei media e della mentalità comune, che modellano il nostro vivere con prassi materialiste, capaci solo di mortificare e martirizzare il nostro debole anelito di cristianità. A questi indefiniti coercitori, inafferrabili in quanto sempre genericamente identificati, viene imputata la colpa del nostro scellerato sistema di vita, senza interpellarsi se, con una condotta più coerente ai nostri principi e con un’attenzione più misericordiosa verso la gente, le responsabilità da ascrivere a Mammona non potrebbero essere condivise. È il mondo che ci costringe senza scampo a subire le sue nequizie o è la nostra incoerenza che non riesce, attraverso il martirio, a rendere migliore il mondo?

 Non siamo così innocenti

Da dove nasce l’anticlericalismo più acceso? Ok: per l’opera incessante del Maligno che, con ogni mezzo, cerca di boicottare la Chiesa di Dio, ma forse qualcosa di storto la combiniamo anche noi. Non è, a volte, anche una forma di reazione a qualche angheria subita? Tralasciando i peccati storici, quali la benedizione di un colonialismo feroce e le degenerazioni dell’Inquisizione, di cui i diversi papi non si stancano di scusarsi, rimane, più moderna e attuale, una quiescenza immobile alle diverse logiche di potere, da cui poter trarre i consueti benefici economici a scapito di un “radicale” abbraccio dei principi proposti dal vangelo. Credo non sia difficile cogliere anche nella nostra storia più recente imbarazzanti esempi di come cristiani, con importanti responsabilità pastorali, abbiano preferito concentrarsi maggiormente sull’incremento del proprio gruzzolo. Tutta la questione dei fondi neri dello IOR ne è emblematica testimonianza, così come lo storno di fondi destinati all’aiuto umanitario finiti a rimodernare sontuosi attici di proprietà di prelati, fino alla millantata benevolenza sul pagamento di tasse per edifici del patrimonio ecclesiale.
Tutto questo, anche se costituisce solo una parte della realtà della Chiesa, per tanti altri aspetti prodiga e dedita all’autentico martirio, crea un oggettivo ostacolo nelle relazioni con le realtà extra-ecclesiali, formando una mentalità ostile e pregiudiziale, che ostacola la pastorale a molti livelli. L’esempio illuminante di tante brave persone, preti compresi, viene offuscato dal paravento di condotte poco edificanti, quando non aberranti. Non dimentichiamo anche il devastante impatto sulla credibilità della Chiesa ottenuto dal dramma della pedofilia, che per troppo tempo è stato sottaciuto e minimizzato. Ecco perché risulta inopportuno l’accostamento tra il presunto martirio di certe Chiese locali, come quella italiana, con gli eccidi e le torture che la stessa Chiesa subisce in altre parti del mondo. Non amiamo la Chiesa chiudendo gli occhi sulle sue difficoltà e sui suoi peccati. E la consapevolezza che essa sia composta di persone, in quanto tali peccatrici, dovrebbe spingerci ad un esame di coscienza un po’ più attento e collettivo. Senza dare per scontato che in questo film della vita i buoni siamo sempre solo noi e senza indugiare eccessivamente sulle pagliuzze, ma cominciando a rimuovere le travi che ottundono la nostra visione del mondo. Magari, formulando con maggiore frequenza qualche sincero “mea culpa”.

 Il martirio contagioso

Bisogna, infine, trovare il coraggio di abbandonare i nostri piedistalli di altero e presunto monopolio di verità e imparare a calarsi al fianco delle persone, tranquilli della profondità delle nostre radici, geneticamente predisposte a supportare senza recidere i pesi gravosi degli altri. La fatica del martirio, indispensabile per riconoscerci come cristiani, dovrebbe essere proprio questa: la consueta disponibilità a farci carico, con le forze di cui possiamo disporre, capacità, denaro, talenti naturali, di chi ci sta vicino. Né più né meno di quello che fece quel buon samaritano sulla strada tra Gerusalemme e Gerico. Avendo sempre l’accortezza che tale disponibilità non si trasformi, nemmeno per fraintendimento, in una sorta di ricatto che vincoli il beneficiato, limitandone la libertà, oppure in un gesto teso a magnificare la nostra vanagloria di persone dabbene.L’umile allegria, che sapremo infondere nel nostro approccio e nei nostri gesti, diventerà allora il viatico contagioso che ci potrà legare senza lacci al prossimo, invitandolo senza pretese alla medesima predisposizione d’animo. La meraviglia di essere simili.