O la messa o la vita

Interrogativi sulla credibilità evangelica di noi, cristiani comodi 

di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

Sono pazzi questi cristiani

Dei miei studenti, stavolta, mi colpisce non il solito atteggiamento di opposizione pregiudiziale al cristianesimo, o la richiesta classica di una religione più libera, o semplicemente l’indifferenza che una parte di loro si ritrova addosso.

A colpirmi è, invece, la strana mescolanza di ammirazione e sorpresa che li ha colti di fronte alla testimonianza delle persecuzioni dei cristiani in Africa. E qualche riflessione sono stato costretto a farla.
Già qualche tempo fa avevo costruito un power point con le ultime notizie (allora ultime, ma non più ora!) delle stragi nelle Chiese cristiane in Africa. E l’avevo presentato alla classe. Mi aspettavo reazioni del tipo: «Farsi ammazzare per una messa è da scemi», che già l’anno prima era venuta fuori in una discussione dopo i primi attentati. O un distaccato interesse formale, come si potrebbe trovare di fronte a tante altre stragi di innocenti a cui ci siamo, purtroppo, assuefatti dalla tv.
Ultimamente sono tornato sulla questione con altre classi, a fronte delle nuove stragi, purtroppo non terminate. Sia allora che ora i miei studenti mi hanno stupito. Ancora una volta. «Ma come prof, mi faccia capire. Questi da un anno rischiano di morire tutte le volte che vanno a messa e continuano ad andarci?». «Sì, Lorenzo, è esattamente così». «Non ci credo, prof - interviene Michela - Cioè esistono ancora persone che sono disposte a morire per una fede che non si sa neanche bene se sia vera o inventata?». «Evidentemente - faccio io - per loro è molto vera e anche molto reale. E forse sperimentandola si sono resi conto che è davvero il senso della loro vita, ed è fondata su un fatto altrettanto incredibile quanto il loro comportamento: che Gesù è risorto». Alessandro sposta la visuale, ma la sorpresa ammirevole resta: «Importa poco se sia vera o no quella fede. Importa che per loro avere fede è qualcosa che gli dà senso, hanno qualcosa per cui vale la pena di vivere. Io lo apprezzo. Poi non sarei così estremo, fino a rischiare la vita, ma credo che loro siano persone contente di sé stesse». «Boh, non so se sono contenti - di nuovo Michela - se ci penso sul serio, prof, io sono stupita». «Ma in positivo o in negativo?» le chiedo. «In positivo, certo. Cavolo, forse ci deve essere qualcosa in più nella fede, che i cristiani di qui non fanno vedere, se loro non mollano e accettano di rischiare la morte».

 Allarme credibilità

Ecco proprio questa loro frase mi risuona dentro. Di queste stragi, purtroppo, quando sono lontane e non ci toccano direttamente, si fatica a trovare traccia nei siti all news appena il giorno dopo. Ma per i miei studenti sono un’occasione per fare una riflessione non banale: «Ci deve essere qualcosa in più che i cristiani di qui non fanno vedere». E allora mi chiedo: cosa facciamo vedere qui? Cosa faccio vedere io a loro? Un po’ di crisi mi arriva addosso. Non quella economica, ma quella del senso della mia e nostra presenza tra di loro e nel mondo.
Intanto perché mi confermo nell’idea che già avevo da tempo: forse non basta più essere cristiani normali, ordinari, che vivono dentro ai propri ambiti di vita, per rendere testimonianza di Gesù risorto. Non basta più essere cristiani che sperano, attraverso l’organizzazione e le strutture della Chiesa, di far “trasparire” Gesù. E io mi sento proprio uno di questi. Paradossalmente queste stragi di “cristiani scomodi” hanno il potere di mettere in crisi noi “cristiani comodi”. E invece di stracciarsi le vesti contro il mondo islamico, a torto considerato un tutt’uno che ce l’ha con il cristianesimo, davvero dovremmo lasciarci afferrare compiutamente dalla fede in Lui perché la gioia di questo incontro travalichi la nostra comoda pelle in cui abitiamo e sia un segno che sconcerta e scuote, come la testimonianza di questi martiri. Io, nel mio piccolo, ci sto lavorando, anzi cerco di lasciare che Lui ci lavori.
Secondo. Ho avuto modo di chiacchierare, tempo fa, con il vescovo di Carpi mons. Francesco Cavina, sull’esperienza del terremoto, e su come quella Chiesa l’abbia vissuta. Una cosa che mi ha colpito è stato il chiaro riconoscimento, da parte sua, che a volte le strutture della Chiesa “nascondono” la bellezza di Gesù Cristo invece di mostrarla. E che, quando le strutture non ci sono più, paradossalmente l’amore e la condivisione si vedono di più.

 Nella prosperità non si comprende

Si potrebbe cioè applicare alla nostra Chiesa “comoda” il salmo 48: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono». Traduco rovesciando: la fede, di fronte alle tragedie della vita finalmente riesce a mostrare in positivo la “differenza cristiana”. E allora dovrei quasi concludere che come cristiani, in occidente, stiamo troppo bene. Ci stiamo, appunto, troppo “comodi”. E allora le vere o presunte aggressioni al cristianesimo, che qui da noi ci affanniamo ad individuare, potremmo sentirle come occasione di grazia. Sì, di grazia, anche per noi, per interrogarci su come queste aggressioni ci chiedono di dare testimonianza a Dio. Facile dirlo qui dietro uno schermo di un pc. Impossibile, invece, se mi metto a confronto con chi sul serio gioca la sua vita per Lui, e che, come Lui, non si tira indietro di fronte alla follia ideologica.
Michela alla fine lo ha ammesso: «Credo davvero che se un cristiano fosse disposto a morire per Gesù ci potrei anche credere». E allora le nostre, e anche le mie, elucubrazioni sulla nuova evangelizzazione impallidiscono di fronte alla forza di questi cristiani africani. «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Quanti modi potremmo avere per «morire per Cristo»? Forse non ci viene chiesto di dare il sangue, certo. Ma, di sicuro, ci viene chiesto di lasciare che il controllo della nostra vita sia nelle mani di Cristo. È anche questo un modo per «morire per Cristo», mostrando agli uomini e alle donne di oggi che la nostra vita sta veramente in piedi sul vangelo, non sulle strutture che abbiamo costruito a partire dal nome di Cristo. Insomma, e lo dico prima di tutto a me stesso, questi martiri africani ci rimandano alla radice stessa della nostra fede e ci spingono a pregare Dio perché, per non tradire il loro sacrificio, «aumenti la nostra fede». Altrimenti il rischio è che, qui, in occidente, la nostra “comodità” finisca per renderci una minoranza culturale insignificante. Forse potremmo partire rispondendo sinceramente ad una domanda: quanti di noi smetterebbero di andare a messa se in ballo ci fosse la nostra vita? O quanti, invece, ci andrebbero con più convinzione? Paradossale lo so. Eppure, andando a messa, celebriamo e ci impegniamo a vivere esattamente lo stesso significato: «Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi».