Ti sento, mi senti

Alla ricerca di un dialogo efficace, vero e caritatevole fra paziente e curante

 di Annamaria Marzi
Presidente dell’Hospice Casa Madonna dell’Uliveto, Albinea (RE) 

 
 Finitezza

Sarebbe bello che, in caso di malattia grave, desiderassimo fare un percorso di consapevolezza…

È una strada che possiamo percorrere, ma è irta, difficile in questa nostra cultura del benessere e dell’immortalità che rifiuta il senso del limite e della finitudine. Sono convinta però che per un cristiano, che fa della sua vita un dono a Dio e ai fratelli, la morte rappresenti la consegna definitiva al Padre di tutto quanto ha ricevuto. Già nella comunicazione-relazione tra medici e pazienti si registrano grandi resistenze. Propongo di riflettere sulle seguenti considerazioni.
Esiste una verità della biologia e della medicina su cui si fonda la diagnosi e in parte l’intervento terapeutico, ma nel processo di conoscenza di questa “verità” gioca un ruolo fondamentale la verità del paziente, ossia la percezione che ha della propria malattia e le sue modalità di riportarla ai curanti. Una verità che non risponde a criteri di oggettività perché riportata dal paziente secondo parametri non misurabili, per esempio le conseguenze dei sintomi sulla propria quotidianità. È responsabilità dei curanti interpretare quanto riportato dal paziente e poiché si tratta di un processo difficile, delicato, non esente da errori interpretativi, ci si è avvalsi sempre di più del supporto della tecnologia applicata alla medicina, ed è indubbio che tale impiego negli ultimi decenni abbia raggiunto risultati notevoli in termini di affidabilità e precisione.

 I rischi della tecno-sanità

Tuttavia, il rovescio della medaglia con cui oggi ci troviamo a fare i conti è che l’uso della tecnica applicata alla medicina da mezzo-strumento diagnostico-terapeutico è diventato il procedimento sanitario stesso. Da un lato, il paziente affida alle prestazioni tecnico-sanitarie la qualità della propria salute e la guarigione dalla malattia, in uno scenario dove la morte (la propria) è sempre evitabile; dall’altro, il curante spesso concentra le proprie attività nella richiesta e/o esecuzione di prestazioni tecniche, misconoscendo i guadagni “reciproci” di una comunicazione appropriata e di una relazione terapeutico-assistenziale basata sulla fiducia.
Fattori quali un’aumentata attenzione alla salute e al benessere, il crescente riconoscimento della capacità di scelta e autonomia individuali, l’accesso diretto alle informazioni, la diffusione delle conoscenze mediante i media e le tecnologie determinano una domanda di competenza comunicativa del personale curante. Per evitare di ridurre lo spessore della relazione umana paziente-curante a favore di una ‘relazione standardizzata’ frutto di una concezione tecnocratica dell’intervento, è fondamentale recuperare il valore della comunicazione. Se la vita non è un sistema individuale autonomo, ma una trama di implicazioni sociali a più livelli, quando interviene una patologia che ne compromette la qualità, è necessario “mettere in comune” (etimologia latina del verbo comunicare) saperi, competenze, valori, percezioni su cui basare un percorso di cura appropriato ed efficace.

 Umanizzare la cura

«La verità di una comunicazione non sta nell’intenzionalità verbale, ma nelle condizioni che vengono messe in atto perché si possa dire la verità» (Ivana Padoan). Queste condizioni, oggi, si danno nel momento in cui l’incontro tra paziente e professionisti della cura si configura come uno spazio di comunicazione bi-direzionale che presuppone ascolto partecipato, interesse reciproco e integrazione di obiettivi complementari (ricevere una diagnosi/formulare una diagnosi; iniziare un percorso terapeutico/impostare una terapia etc..). Rendere possibile questo spazio di “incontro” e di auto-reciproco-riconoscimento significa agire nella direzione di umanizzare i processi di cura.
Una comunicazione efficace aumenta infatti la condivisione delle responsabilità all’interno del percorso di cura e favorisce l’adesione (compliance) della persona malata alle terapie proposte, divenendo essa stessa “atto terapeutico”. Nello specifico, il paziente percepirà un senso di maggior controllo sulla patologia, svilupperà una migliore capacità di fronteggiare i momenti critici dell’iter terapeutico oltreché una accresciuta partecipazione alle scelte, comprese quelle relative alla pianificazione condivisa delle cure. Il curante, da parte sua, meglio riuscirà ad aumentare il senso di fiducia, stabilire l’alleanza terapeutica, ottenere il consenso informato, formulare una diagnosi corretta e identificare/proporre interventi appropriati.

 Proteggere, non nascondere

Gli studi in letteratura riferiscono che la maggior parte dei pazienti con patologie in fase cronica e/o avanzata desidera essere informata in relazione alla propria situazione clinica, anche se non tutti richiedono informazioni dettagliate e complete. La possibilità di ricevere informazioni oneste e veritiere sul proprio stato di salute, nel rispetto dei propri tempi, rappresenta uno dei bisogni di cura principali per i pazienti. Le loro preferenze riguardano la possibilità di accedere a una comunicazione graduale, commisurata di volta in volta alle proprie capacità di comprendere e reggere dal punto di vista psico-emotivo le notizie che li riguardano. Per contro, è altrettanto documentata, da parte dei professionisti della cura, una reticenza ad informare a causa della richiesta dei familiari di “proteggere” il proprio caro da notizie troppo dolorose, dell’idea che il malato non vuole realmente sapere tutto, della mancanza di tempo sufficiente e/o di competenza relazionale da dedicargli. A fronte di una oggettiva complessità e delicatezza della comunicazione verso pazienti e familiari, la questione dirimente non è tanto informare o meno della diagnosi, quanto scegliere il momento e le modalità con cui veicolare in modo adeguato le notizie relative all’evolversi della situazione clinica. Alcuni casi si configurano come particolarmente critici:

  • i familiari chiedono ai curanti di non informare il proprio caro sulla sua situazione clinica
  • l’integrazione o il passaggio dalle cure “attive” volte alla guarigione alle cure palliative focalizzate sulla qualità di vita e sulla presa in carico globale della persona
  • la richiesta del paziente di sostenerlo nei suoi bisogni psicologici, etici, relazionali (più che clinici e informativi), la quale può non essere adeguatamente accolta laddove a prevalere nei curanti sia un senso di inadeguatezza per carenza di competenze, vincoli organizzativi, mandato istituzionale/professionale.

Tuttavia, nelle Cure Palliative (“pallium” = mantello) si cerca di coniugare “verità” e carità, cercando di prendersi cura del malato e della sua famiglia in modo integrale, con rispetto, attenzione e accompagnamento personalizzato. C’è bisogno però di una nostra conversione per riconoscere che la meta della nostra vita è l’incontro con Colui che ci ama da sempre, ci attende e

 Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.

(Mariangela Gualtieri, Monologo del Non So)

 Tendono alla chiarità le cose oscure

(Eugenio Montale, Portami il girasole ch’io lo trapianti)