Verità, barbona Verità

Don Milani ci insegna che la Verità non ha casa, ma viaggia con la Storia e le persone

 di Antonello Ferretti
frate cappuccino, animatore culturale nella Fraternità di Reggio Emilia

 «Normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie.

Perché questo bene è fatto di rispetto reciproco. I ragazzi non mettono in discussione che io ho una esperienza più lunga e io a mia volta non dimentico che un’esperienza più breve, ma più attuale, ha una garanzia di maggior verità perché il mondo progredisce. Il parlarsi fonde queste due ricchezze. Io so quello che sanno loro, loro sanno quello che so io».
Natale 1965, così il Priore di Barbiana scrive ad un amico. Amico reale o fittizio? Finzione letteraria? Non è possibile stabilirlo con certezza anche perché la lettera resta incompiuta. Ma una cosa è certa: è scritta nel 1965. Andando con la memoria alle lunghe chiacchierate fatte con Michele Gesualdi sotto la pergola barbianese, mi sembra di sentirlo ripetere con forza: «1965, l’anno in cui dopo tanto silenzio don Lorenzo torna a scrivere (è l’anno della lettera ai cappellani militari e della lettera ai giudici) e lo fa da uomo nuovo».
Era arrivato a Barbiana nel dicembre del ’54, solo, scornato e sconfitto, certamente in crisi, e per salvarsi inventa una scuola tutta sua. Ma al di là di questo fatto contingente inizia per don Lorenzo un lungo cammino di ricerca, di conversione che lo porterà - attraverso silenzi, abbandono delle proprie certezze, confronto con realtà e persone del tutto estranee al suo mondo di “Pierino del dottore” - a scoprire e condividere la Verità. E la Verità (quella vera) è semplice, autoevidente e comprensibile da tutti. Da qui lo stile immediato dei testi milaniani di quegli anni: parole calibrate, scelte, ma comuni, perché tutti potessero capire.

 Un sentiero ininterrotto

E per associazione di idee mi intrufolo nelle stanze di casa Milani a Firenze in via Masaccio dove la verità era qualcosa di insindacabile, qualcosa di oggettivo, rigido ed inalterabile… una formula matematica che discrimina chi è nel giusto e chi nella menzogna e diventa una legge piena di norme e precetti da rispettare: non per niente Albano (il padre di don Lorenzo) era un chimico e mamma Alice era ebrea.
È una verità granitica, senza sfumature quella che apprende il giovane Lorenzino (come lui stesso si firma) nel suo alveo famigliare: saranno l’incontro con il vangelo (del quale fece indigestione fin dalla prima volta che lo lesse, come ci testimonia don Bensi, suo direttore spirituale) e col povero ad aprirgli gli occhi sulla importanza delle diversità viste come sfumature della verità. E saper cogliere tali sfumature è senza dubbio sinonimo di carità (non a caso san Paolo quando parla dell’essenza dell’amore sente il bisogno di declinarla in molteplici suggestioni). E sarà questa visione della verità unita alla carità che porterà il Priore a inventare e strutturare un lessico che vuole bene e che sa introdurre la magia creativa in opposizione al nozionismo tra i banchi di scuola.
 A Barbiana la Verità è invitata ad uscire dai salotti letterari, dalle biblioteche e dalle barricate delle verità oggettive, a lasciare un sapere che è trasmissione unilaterale del vero. Occorre andare lungo le strade e i sentieri per apprendere la verità di chi sta camminando sulla nostra stessa via e provare a costruire un orizzonte comune andando alla ricerca del bene là dove esso si trova, in luoghi che spesso noi nemmeno consideriamo, abituati a pensare che esista una casa e non un sentiero ininterrotto (come direbbe Heidegger) dove il vero trova dimora. Don Lorenzo si è sempre mostrato debitore verso altri nel percorso della acquisizione della verità; a tal proposito scrive: «I poveri mi hanno insegnato come vivere e io ho insegnato loro ad esprimersi».

 Aprirsi alla realtà

Il vecchio e caro Platone sosteneva che fare filosofia è possibile solo tra amici, occorre una comunione di vita per mettersi in cammino verso la Verità. Questo adagio era presente nella mente del Priore tanto che sostiene che «normalmente alla verità ci arriviamo insieme». Il pensare e il parlare insieme, in comunità (uno degli obiettivi che la scuola di Barbiana si prefiggeva) porta a scoprire le relazioni e le interazioni sia tra i comunicanti che tra i comunicanti e il mondo circostante. Inevitabilmente questa dinamica ci spinge a purificare il nostro modo di concepire il pensiero e la parola stessa attraverso una graduale uscita dal nostro egocentrismo e dall’essere autocentrati. Solo così sarà possibile riaprire la via della ricerca e della trasformazione e del mondo.
È un modo vivo di intendere la Verità, è un processo dinamico e progressivo che richiede pazienza, che richiede di non essere invidiosi del contributo degli altri, di non mettersi in mostra per far valere il proprio punto di vista, di non andare in cerca del proprio interesse, di godere della verità, di scusare, di sopportare gli eventuali incidenti di percorso. Ma sarà un caso che in questo iter rientrino tutte le sfumature che san Paolo elenca nell’inno alla carità? Verità e carità si rincorrono, si intrecciano, si fondono, si richiamano inevitabilmente e rimandano sempre alla realtà.
Quando Papa Francesco in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del Priore salì a Barbiana, parlò di «apertura alla realtà» ed utilizzò questa espressione riferendosi proprio alla ricerca della verità così come era stata intesa da don Lorenzo. La verità non è una realtà imbalsamata da conservare, ma è una realtà continuamente da attualizzare perché il mondo progredisce e con esso progredisce anche la comprensione della verità stessa. Non si tratta di tradire la verità in sé, ma di renderla viva e significativa per le persone a cui essa si rivolge. A chi serve una Verità che non incide nella vita? Anzi… posso ancora parlare di verità?

 Chi è la verità?

«“Che cos’è la verità?”. Questa la domanda di ogni Pilato della storia. Sarebbe meglio chiedersi: “Chi è la Verità che dà senso alle mie giornate?”. E perché questo sia possibile occorre conoscere ed amare le persone a cui ci si rivolge, occorre “amare al singolare”, cioè restringere il campo». Don Lorenzo si riteneva un prete di montagna che non vedeva al di là delle sue creature e definiva preti da cenacolo mistico e letterario i sacerdoti che parlavano di amore universale riempendosi la bocca di parole vuote. Occorre fare scelte di campo perché amare tutti è comodo in quanto non si ama nessuno.
Padre David Maria Turoldo (uno degli esponenti della Chiesa fiorentina di quegli anni che annoverava figure quali Balducci, La Pira, don Facibeni, Elia della Costa, tanto per citarne alcune) parlando di don Lorenzo così scrive: «Così Don Milani amava. Amava anche te. Ma ti amava come Cristo amava il ricco epulone. Con l’amore che non scherza. È proprio dell’amore non fare un fascio di ogni erba. L’amore distingue, sceglie, divide, denuda: ti accusa, ti inchioda alla croce perché ti vuole salvo a tutti i costi. L’amore è per la pace, ma non è imbelle. Tanto meno è neutrale. L’amore è lotta fino alla morte. Esigente, implacabile. Dà la vita per la verità. E la verità è l’uomo. Così è l’amore».