Tante verità, un cuore solo

La “gerarchia delle verità” rende la Chiesa più accogliente e più vera

 di Enrico Galavotti
docente di Storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università di Chieti-Pescara

Fedele allo scopo che gli aveva assegnato Giovanni XXIII, il concilio Vaticano II ha effettivamente realizzato un importante processo di aggiornamento:

senz’altro più avanzato in alcuni ambiti, mentre per altri, anche molto rilevanti, si attende ancora che il seme piantato tra il 1962 e il 1965 produca i suoi frutti. Che questo fosse il destino del Vaticano II era chiaro soprattutto agli osservatori più attenti, che ben al di là delle rapide reazioni di entusiasmo e di disillusione, avevano chiaro come i postulati dei decreti conciliari esigessero, per la loro realizzazione, un profondo rivolgimento di prospettive e prassi.
D’altro canto non va dimenticato che l’approdo al Vaticano II era stato segnato da una lunga stagione in cui il cattolicesimo aveva spesso declinato la propria missione come un’azione di resistenza contro una sequenza di avversari ed errori che imponevano a tutti i battezzati una fiera compattezza attorno al clero; ma era lo stesso messaggio cristiano che era stato via via snaturato e configurato come un insieme di assiomi netti ed inderogabili, che pretendevano in alcuni casi - proprio perché lo contraddicevano - anche di sostituirsi allo stesso vangelo. Ecco che si comprende quindi tutta la fatica dei padri del Vaticano II, impegnati appunto a distinguere tra ciò che, nella tradizione secolare, rappresentava un tesoro irrinunciabile per i cristiani e ciò che, invece, rappresentava una zavorra che impediva al vangelo di parlare alle generazioni del presente e del futuro.

 La gerarchia delle verità

Questo lavoro di approfondimento del messaggio cristiano compiuto al Vaticano II aveva toccato anche questioni che avevano rappresentato, almeno sino a quel momento, veri e propri tabù, violati solo da alcuni precursori capaci di lasciarsi interpellare dalle urgenze del loro tempo. Si pensi ad esempio al tema della libertà religiosa; ma anche a quello dell’ecumenismo, precluso ai cattolici sino a pochi anni prima perché bollato come un «falso irenismo» che metteva a repentaglio l’integrità della fede. E fu proprio nell’ambito della riflessione sul tema dei rapporti tra le chiese cristiane che, abbandonando una teologia del ritorno che non aveva sortito alcun risultato (e che anzi aveva inasprito il rapporto tra i cristiani di diversa confessione), che venne enunciato nel decreto Unitatis redintegratio un principio che avrebbe dovuto, di lì in poi, guidare il lavoro dei teologi cristiani incaricati del dialogo ecumenico: «Nel mettere a confronto le dottrine», indicava dunque il decreto, «si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana».
Si trattava di un’affermazione di eccezionale importanza, soprattutto se si considera il momento in cui era intervenuta, ancora segnato da una certa insistenza diffusa a etichettare gli altri cristiani come scismatici o eretici. Il Concilio non intendeva in questo modo affermare che vi fossero contenuti della tradizione cristiana da lasciar cadere o meno importanti di altri; ma solo che un dialogo tra cristiani che per secoli avevano confessato una fede diversa non poteva non fondarsi sulla consapevolezza che c’era un dato comune a tutti, che era la fede in Cristo crocifisso e risorto; e che da Cristo si irradiava la luce che illuminava e giustificava tutti gli altri elementi che i cristiani appartenenti a differenti confessioni consideravano essenziali ed irrinunciabili. Questo significava ripensare il modo in cui il cattolicesimo si era pensato e presentato al mondo per secoli; ma anche riconsiderare con attenzione e rispetto tutto ciò che costruiva l’identità delle Chiese non cattoliche e che era stato sempre guardato con ostilità, se non con disprezzo. Proprio perché preso sul serio, questo principio ha consentito negli ultimi decenni di avviare un dialogo teologico che, in alcuni casi, ha già prodotto risultati importanti, come ad esempio l’accordo tra cattolici e riformati sul tema della giustificazione (1999); e sulla stessa lunghezza d’onda si sono posti tanti altri gesti e pellegrinaggi ecumenici che hanno coinvolto i vertici delle Chiese. S’è potuto insomma riscoprire, come aveva detto papa Giovanni la sera dell’apertura del Concilio, che gli elementi di comunione erano comunque sempre superiori a quelli di divisione.

 Andare all’essenziale

Avere la consapevolezza dell’esistenza di questa gerarchia delle verità ha significato anche, nel lungo periodo, iniziare a mettere nella giusta prospettiva i nuclei di un magistero che, per quel che riguarda l’ambito cattolico, era spesso sfociato in una forma di papolatria che esaltava qualsiasi affermazione del vescovo di Roma, impedendo così di distinguere ciò che era rivolto a chiarire i fondamenti della fede da ciò che era decisamente più occasionale e periferico. «Anch’io sono certo della mia fede, della fede nella Chiesa, nella gerarchia, nel papa», aveva detto a questo proposito Giuseppe Dossetti a metà degli anni Ottanta, aggiungendo: «ma una cosa è quando il papa svolge la sua funzione fondamentalissima e propria dell’essere custode dell’ortodossia cristologica - ed è questo che deve fare: custodire la certezza cristologica, cioè il nucleo fondamentale della fede in Cristo -, ed una cosa è quando il papa parla di quello che devono fare gli imprenditori cattolici […] O anche quando parla di altre cose di fede, ma molto remote da questo nucleo cristologico».
Ed è stato paradossalmente proprio un papa a riapplicare al proprio ufficio questo principio della gerarchia delle verità enunciato al Vaticano II. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium - il documento che forse rimane ancora oggi il più rilevante del suo pontificato - papa Francesco ha citato proprio questo passaggio del decreto Unitatis redintegratio per prendere implicitamente le distanze da una prassi ormai consolidata che vedeva i pontefici impegnati ad asserire con forza sempre più cogente la posizione della Chiesa su determinate questioni etiche (e segnatamente la morale sessuale). Francesco ha quindi affermato che il principio fissato dal Concilio valeva «tanto per i dogmi di fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale».
Questo significava, rispetto al merito, considerare che la Chiesa doveva essere intransigente non solo rispetto alla nascita (aborto) e alla morte (eutanasia) delle persone, ma anche nei confronti di tutto ciò che si colloca tra questi estremi, levando la sua voce in modo altrettanto deciso contro gli scandali e le ingiustizie sociali patite dalla stragrande maggioranza delle persone. Invece rispetto al metodo questo deve e dovrà impegnare la Chiesa a concentrarsi sull’essenziale del messaggio cristiano, che è Cristo stesso, perché quando «l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario», allora «la proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa».

Segnaliamo:
GIUSEPPE DOSSETTI
Il Signore della gloria. Un discorso su conversione e storia
a cura di Enrico Galavotti e Fabrizio Mandreoli
Il Pozzo di Giacobbe, 2021