Spesso il vizio di vivere ho incontrato

Il succo della vita scorre sempre in noi, la malattia ci può aiutare a riscoprirlo

 di Giovanni Salonia
frate cappuccino, psicologo e psicoterapeuta, direttore dell’Istituto Gestalt Therapy Kairos

La malattia accade. Non te l’aspetti. Ed eccola.

Ad un tratto hai perso quella sensazione sottile di essere immortale, di essere fortunato, di essere ottimista. Come è facile essere positivi quando si sta bene! Proprio quando accade la malattia, prepotente emerge il fondo dell’anima. Paura. Coraggio. Ottimismo. Negazione. Pessimismo. Così l’uomo interiore “absconditus” diventa visibile.  E se non lo vedi, lo intravedi. Diventa ormai difficile ignorare o dimenticare che siamo ‘fatti per la morte’.  Un varco rivela il fondo dell’anima.
La malattia innanzitutto ci rivela la creaturalità: proprio quell’essere “gettati nel mondo” che con i nostri variegati vestiti tentiamo di dimenticare o mistificare. Restiamo nudi. Nel mondo Covid, il terrore: quel terrore che abitualmente dimentichiamo per sopravvivere. Un’ossessione: contagioso o contagiato? Né parliamo di malattie passeggere, ma di quelle che segnano una cesura nella vita, che sembrano la fine di ogni speranza.

 Malattia magistra vitae

La malattia ci riporta al corpo. Sì, a renderti conto che hai un corpo. Ad aver cura delle proprie funzioni fisiologiche, a sentire il respiro, ed il battito e quelle membra che dolgono ma a cui forse non avevamo mai prima prestato attenzione. Senza entrare nella facile connessione della origine psicologica delle malattie che - come direbbe Susan Sontag - serve solo ad aumentare i sensi colpa («Non è sufficiente essere ammalati? Mi devo sentire anche responsabile come fosse colpa mia?»), la malattia costringe ad un cambiamento di vita. Cibarsi con responsabilità. Dalla frenesia alla calma. Dall’arroganza all’umiltà. Dal narcisismo che non chiede al bisogno che deve chiedere. Dall’essere autonomi all’essere dipendenti, ed anche all’essere inchiodati ad una sedia.
Ti cambia. E ti chiede di cambiare. Immette nella quotidianità parole prima inusuali: “Rallenta”, “Sopporta”, “Abbi pazienza”. E oggi allontana dai familiari per lasciare in mani spesso compassionevoli ma pur sempre estranee. Diventa sempre più difficile vedere la luce che verrà domani e quel frammento di luce che oggi ogni momento del viaggio conserva. Insegna il fermarsi, il sentirsi inutili, impotenti dinanzi a un dolore che supera le forze e che non accenna a finire. Insegna la precarietà. Quanto durerà la malattia? Che esito avrà?
Ma la malattia ci rivela anche la qualità della nostra vitalità. Non si tratta solo - come ha fatto Elisabeth Kübler Ross - di descrivere gli stadi in cui l’uomo accetta e fa suo il destino di creatura morente. Mortale. Si tratta - come dice Paola Argentino - di dare un senso alla malattia. Di rispondere alla sofferenza con quella vitalità che è il senso intimo del sentirsi vivi al di là delle condizioni di vita e che è il succo della vita. «Datemi il succo delle mie passioni», canta Walt Whitman.
È la risposta di Rosanna Benzi che, entrata a 13 anni in un polmone di acciaio, vi rimase tutta la vita. E proprio la vita cantò, anzi il “vizio di vivere”. Lei, miscredente, segno di come il Dio creatore ha dato ad ogni uomo di far fronte alla malattia con vitalità. E sperimenta l’amore e la grinta per portare avanti progetti di difesa dei più fragili. Giovanni XXIII le scriverà una lettera per ringraziarla per il suo amore alla vita. 

Il profumo del gelsomino

Non si tratta solo della forza di resistere alle difficoltà (la cosiddetta resilienza), ma di un’energia che - come un fiume carsico - scorre come linfa vitale in ogni vita. Nella Terapia della Gestalt preferiamo alla parola resilienza il concetto di vitalità: sentirsi vivi dentro ogni vita. Tutti amiamo la vita e la vorremmo ‘tutta’ e ‘sempre’.  Dentro ogni scelta, c’è il desiderio, la spinta ad accrescere la vita. Anche chi si toglie la vita sta dichiarando che ama la vita e rifiuta la vita che non è vita, non è gioia di vivere, pienezza di vita. Quando siamo scoraggiati o ci sentiamo travolti dalla sofferenza, esprimiamo la nostra lamentela dicendo: «Che vita è questa?». Vogliamo la vita e la vogliamo “in abbondanza”.
Ma la vita è piena quando tutte le circostanze, tutte le situazioni sono favorevoli? È bella solo quando non sperimentiamo l’asprezza del limite? Ecco dove si colloca la vitalità: è quell’energia calda e direzionata che ci fa sentire vivi anche quando la sofferenza prende la forma del morire.  Uno degli slogan saggi del Sessantotto recitava: «Che la morte ci trovi vivi e la vita non ci trovi morti». Scoprire la propria vitalità: fare propria quella ricevuta (non può essere mera eredità) o riscoprirla (il corpo non la perde mai) anche se non è stata sostenuta dalle figure genitoriali. Attingere all’energia dei corpi degli altri significativi, e cioè le relazioni che ci costituiscono e quelle a cui far riferimento, perché l’uomo nasce da una relazione e di relazioni si nutre, perché la forza d’animo è generata dalla e nella relazione
Solo chi si ridà la vita si sente vivo. La vitalità “tua” te la devi conquistare. Le doglie di ripartorirsi nessuno può evitarle se vuole rinascere. Un corpo vissuto ha il senso della pienezza. Sentire tutto il corpo accettando la paura, la vulnerabilità ma senza accartocciarsi o rimpicciolirsi è già momento di integrità. «Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste […] ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio» (Etty Hillesum). La vitalità in ogni situazione ritrova la pienezza della vita.

 Dal limite, nel limite

Chi ha sperimentato il benessere relazionale sa chiedere sostegno e affidarsi: anche di fronte alle più pesanti asprezze, saprà accettare la propria fragilità senza assolutizzarla e senza negarla.  Anche un corpo fisicamente bloccato, se è sentito tutto trova il proprio canto. Ed ecco che il respiro - ruah, la vita - che attraversa tutto il corpo dalla gola ai piedi che non si ferma all’ansia del petto, alla tensione nello stomaco, ma sente il fluire del respiro della vita in tutte le parti sentirà la vitalità come energia calda e direzionata. 
Tina, inchiodata per mesi a letto con il ventilatore, con i suoi occhi pieni di luce trasmette una vitalità che commuove e contagia forza e calore. Si toglie per un attimo il ventilatore e con un filo di voce: «Ringrazio Dio. Non mi lamento. Dalla vita ho ricevuto tanto. Tutto è grazia». Poi: «Sono imprigionata nel corpo ma mi sento libera nell’anima. Sai, di notte sogno di essere piena di vita e di camminare… come mi è sempre piaciuto fare». Sorride quando le rimando: «Direbbe il poeta: chissà qual è la vera vita? La vita un sogno o un sogno la vita?».
La vitalità ci fa amare ogni vita, non disprezza nessuna vita, neanche la più indifesa, contempla la luna, coglie la delicatezza nobile del gelsomino. Ogni vita disprezzata, ogni vivente rifiutato esprime i limiti della nostra pienezza, della nostra vitalità. Riuscirà a cantare il nostro corpo, la nostra esistenza quando incontrerà il limite? Solo il canto che fiorisce dal limite e nel limite è il canto della vitalità. Anche quando il corpo duole, si può intonare il Cantico delle Creature, come ci insegna Francesco d’Assisi.

 

Segnaliamo:
Gestalt Therapy Kairòs
Rivista di Psicoterapia
www.gestaltherapy.it