Essere in rete senza essere pescati

Qualche consiglio per non fare del network una prigione

 di Guido Mocellin
editor e giornalista

 Non credo di essere troppo distante dal vero se dico che, nelle nostre case, la permeabilità alle nuove tecnologie informatiche e digitali è sufficientemente alta da non permettere agli adulti (genitori, zii, ormai anche nonni) di “predicare bene”, quanto a un uso moderato di tali tecnologie, senza essere accusati da figli e nipoti millennials di “razzolare male”. Sapendo che non c’è niente che i figli imparino così in fretta come i cattivi esempi.


Io stesso, che malgrado i “capelli d’argento” ancora mi aggiro nei reparti dedicati di MediaWorld o UniEuro come fossi nel paese dei balocchi, devo confessare che il primo personal computer entrò in casa nostra, se pure a noleggio, ancora alla fine degli anni Ottanta. Poi fu la volta del cellulare: ottimisticamente, pensai che un solo apparecchio sarebbe bastato a lungo per tutta la famiglia. Il notebook lo comprammo a rate, perché costava molto, ma si adattava meglio agli spazi di casa. Sono passati più o meno vent’anni ed eccomi a contare, in casa, quattro smartphone, un pc fisso, cinque pc portatili, un tablet, un kindle e una smart tv (quel tablet grande che appendiamo al muro…). Ovviamente il collegamento a Internet è con fibra ottica: quando, recentemente, abbiamo cambiato casa, la qualità della connessione nel palazzo è stata una delle prime cose che chiedevamo all’agente immobiliare.

 Quanto di superfluo

Vorrei poter dire che in famiglia facciamo della Rete un uso prevalentemente funzionale, ma sarebbe edulcorare la realtà. Sui nostri dispositivi lavoriamo, cerchiamo informazioni, facciamo acquisti (e vendite), prenotiamo viaggi, gestiamo i conti correnti, guardiamo ricette, studiamo, guardiamo film, giochiamo (da soli o collegati con gli amici) e, chi più chi meno, in essi ci rifugiamo quando vogliamo stare per conto nostro. Tutte cose che potremmo fare anche senza la Rete. Come non abbiamo mai tenuto acceso il televisore ai pasti, così gli smartphone e i loro antenati telefonini non hanno mai prevaricato la tavola, nel senso che se arriva una notifica non ci si precipita a leggerla. Ma quando si chiacchiera di qualche cosa, capita di tirarli fuori per controllare certe informazioni ed eventualmente condividerle.
Infine, i social network. Abbiamo ovviamente una chat di famiglia su WhatsApp, che serve. Ognuno di noi è su altri gruppi WhatsApp, lavorativi e/o amicali. Con qualche insofferenza. Su Facebook io e mia moglie siamo amici dei nostri figli, ma mai commenterei un loro post, a meno di non essere chiamato in causa, e con molta parsimonia pubblichiamo foto o notizie che li riguardano. Neanche i figli eccedono di presenze e di attività sui social. Ma, essendo entrambi dei nativi digitali, capita che siano più esperti di noi genitori, immigrati in Rete da adulti, nell’usare i social o altro: così spesso siamo noi a chiedere il loro aiuto quando su queste piattaforme ci capita qualcosa che non comprendiamo o controlliamo.

 Ogni cosa ha un prezzo

Ma succede anche il contrario: di essere, esplicitamente o implicitamente, i destinatari di una qualche richiesta di aiuto, di tipo mediaetico. Se non ci sono in questione comportamenti patologici, credo di poter riassumere quello che secondo me i “più grandi” dovrebbero insegnare ai “più piccoli” per evitare che la Rete faccia prigioniera la nostra casa e la nostra vita - ovvero per educarsi a un suo uso consapevole, attivo e passivo - in tre lezioni.
Nessun pasto è gratis. È un principio fondamentale dell’economia, e vale anche per la Rete. Non c’è più fenomeno attinente alla Rete che non abbia questo risvolto: c’è sempre in ballo un interesse economico. Gmail è il migliore account di posta elettronica, ma ci induce a regalare a Google tutte le informazioni sulla nostra attività in Rete che passa da quel motore di ricerca, e che Google saprà monetizzare. “Tutti” i siti di informazione usano, più o meno intensivamente, la tecnica dell’acchiappaclick (clickbait), ovvero formulano una notizia in modo da indurci a cliccare per leggerla (forzando il titolo, pornografizzandola, dicendo o mostrando il falso, diluendocela in diverse schermate…); e anche tutti i link che ci arrivano con formule del tipo «potrebbe interessarti anche» prendono un nostro interesse per tramutarlo in soldi. Allora, qualsiasi cosa facciamo in Rete, chiediamoci chi potrebbe guadagnarci e se siamo disposti, o vale la pena, contribuirvi. Gamer, youtuber e soprattutto influencer, che vanno occupando le nostre case attraverso gli schermi dei nostri figli, sono persone che hanno fatto della presenza in Rete un vero e proprio lavoro. E i ragazzini su TikTok li prendono a modello.

 Filtrare le informazioni

Siamo tutti giornalisti. Qualsiasi contenuto postiamo in Rete, dovunque lo postiamo (sottolineo: qualsiasi e dovunque) diventa pubblico. Cioè verrà letto/visto/ascoltato potenzialmente da tutti, e non solo da quelli, pochi o tanti che siano, ai quali si pensa di rivolgersi. A proposito di famiglia: ci sono dei programmi che trasformano i nostri defunti in chatbot («persone» con le quali chattare) elaborando ciò che di loro si trova in Rete. Allora, nel momento in cui la distinzione tra chi comunica in pubblico in modo professionale (cioè lo fa per mestiere, guadagnandosi in tal modo da vivere) e chi comunica in pubblico e basta diventa sempre più sfumata, quelle regole che fino a ieri valevano solo per i professionisti devono diventare patrimonio di tutti. Ovvero: qualsiasi contenuto postiamo in Rete andrà preventivamente filtrato con criteri giornalistici: completezza dell’informazione (chi ricorda la regola delle 5W?), rispetto delle persone, distinzione chiara tra fatti e opinioni, verifica e dichiarazione delle fonti.
Ma non tutti sono giornalisti. Non si tratta solo di imparare a riconoscere le fake-news o a rendersi conto di cosa si intende per post-verità. Si tratta di sapere che i contenuti in Rete non scontano alcuna selezione previa in ordine alla loro affidabilità. Penso ai video dei cosiddetti “esperimenti sociali”, o a quelli dell’attore Gian Marco Saolini. E poi c’è la questione della disintermediazione. Tra le caratteristiche della Rete si indica spesso questo fenomeno, per dire che grazie a essa una quantità di soggetti pubblici (persone, ma anche imprese, istituzioni) comunica facendo a meno della mediazione dei giornali e dei giornalisti. È però un’arma a doppio taglio: la popolarità di una popstar o di un atleta può renderli più credibili dei giornalisti agli occhi dei fan digitali, ma può anche causare loro grossi problemi se prendono posizione su questioni molto divisive dell’opinione pubblica. Ovvio, poi, che tanto i personaggi pubblici, quanto quelli diventati tali grazie alla Rete, spesso (non sempre) ricorrono per gestire la loro comunicazione a dei professionisti. Che però non sono giornalisti, o comunque non fanno i giornalisti.
Si tratta di problematiche che meriterebbero, ciascuna, ampi approfondimenti. Ma vorrei aggiungervi una domanda specifica per i lettori di questo periodico: come può l’ispirazione cristiana aiutarci a fare in modo che le nostre case, e le nostre vite, siano «nella Rete ma non della Rete»?