Un volto. Un viaggio. Un sogno

Dietro alla guerra mediatica e politica sull’immigrazione, ci sono storie e persone vere

 di Giusy Baioni
giornalista free lance

 Ormai siamo alla guerra. Guerra di parole, guerra di chi urla più forte, di chi resiste alle leggi del buon senso e del buon cuore, prima che alle leggi del soccorso e alle norme internazionali.


Guerra di propaganda e di numeri. Perché alla fine di questo di parla, quando si tratta di migranti: numeri. Senza volti, senza storie, senza possibilità di appello. Beninteso, parliamo di poveri. Se fossero ricchi, anche se neri, avrebbero il tappeto rosso srotolato. È facile etichettare i nuovi flussi come migrazioni economiche. Quasi fosse una parolaccia. Quasi si fossero scelti loro la condizione di poveri. Quasi non avessimo responsabilità alcuna, noi paesi occidentali, nel sistematico saccheggio delle loro terre, nello sfruttamento con cui impoveriamo i loro paesi, nella corruzione con cui compriamo i loro governanti. Le colpe sono ben suddivise, sia chiaro. Forse mai nella storia l’Africa è stata così mal governata, così in mano a una manica di banditi. Con pochissime eccezioni: se va bene, ti capita un presidente onesto, o che magari si riempie le tasche, ma almeno garantisce qualche servizio al popolo. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, chi sta a capo di una nazione il suo popolo lo affama. E perseguita chi osa alzare la testa.

 La punta dell’iceberg

Ciò che vediamo sulle nostre coste è la punta dell’iceberg: come conferma il recente rapporto annuale dell’UNHCR, sfollati e richiedenti asilo africani per oltre l’85% restano nel continente, spostandosi nei paesi limitrofi. Da noi arrivano le briciole. Non le briciole, invece, arrivano nei container, nelle navi che imperterrite saccheggiano il continente, con la complicità dei suddetti cleptocrati. Comodo, no? Pretendiamo di svuotare l’Africa delle sue risorse, dei suoi minerali, del suo pesce, del suo legname, delle sue terre, ora pure del sole e dell’acqua… pretendendo che gli abitanti restino zitti e buoni, anzi, magari che scavino pure a mani nude per estrarre per due soldi i preziosi coltan e cobalto che servono per la nostra tecnologia. Tramite la quale poi li insultiamo.
Sogni. Per fortuna restano i sogni. Per fortuna resta il sorriso. Se c’è una cosa che mi lascia attonita ogni volta che torno in Africa, è la capacità delle persone di essere contente di nulla, il ridere dei bambini, la profonda dignità degli adulti, la saggezza e l’accoglienza, da cui avremmo solo da imparare.
E siccome – dicevo all’inizio – parliamo di persone e non di numeri, voglio raccontarvi una storia. Una fra mille, di un ragazzo con cui ho parlato a lungo. Una storia di migrazione normale, quasi banale. La banalità del male.
Ne potreste ascoltare a migliaia. Anche se con profonda dignità gli africani non amano raccontare il dolore patito. E quando si decidono, lo fanno con voce e occhi bassi, senza recriminazioni, senza rabbia, senza maledire il mondo intero, come faremmo noi.

 Il viaggio di M.F.

M.F. è partito in fretta e furia dal suo paese nell’Africa dell’ovest. Qualcuno lo voleva morto. Passare la prima frontiera è stato un gioco da ragazzi: arrivi col bus, se hai documenti ok, se non li hai, allunghi qualche soldo ai poliziotti. E prosegui, fino a che cadi nelle mani dei trafficanti. In genere accade in Niger, perché per attraversare il deserto bisogna affidarsi a loro. «Ti promettono che in 7/8 ore sarai in Libia, ma non è vero. Paghi, ti caricano su camion stracolmi, senza cibo e senza acqua…». Il viaggio può durare giorni. E spesso è un viaggio senza ritorno. Parliamo sempre delle morti nel Mediterraneo, ma dimentichiamo che anche il Sahara è un immenso cimitero. A M.F. è andata “bene”. Il loro mezzo si è guastato dopo poche ore di viaggio. Il camionista se ne è andato, abbandonandoli senza nulla. Quando è tornato, giorni dopo, diversi di loro erano morti. E M. li ha visti morire, i suoi compagni di viaggio. Di sete e di stenti. Lui ha resistito. E dopo una settimana d’inferno è arrivato in Libia.
Quando è scappato dal suo paese, non aveva alcuna idea di venire in Europa. La sua meta era la Libia. E lì ha trovato un lavoro: il razzismo dei libici verso i neri è fortissimo, la vita non era facile, ma M.F. se la cavava. Finché un giorno è uscito di casa per comprarsi da mangiare ed è stato fermato dalla polizia libica. Senza accuse, senza domande, senza spiegazioni, senza nulla, è stato sbattuto in prigione. Non una prigione come la pensiamo noi. Un lager. Una di quelle prigioni illegali di cui sentiamo parlare. Per un tempo infinito e indefinito, in cui non ha potuto vedere la luce del sole e contare il trascorrere dei giorni, M. (alto più di 1,80m.) ha avuto un pane secco e un bicchiere d’acqua. Al giorno. E ogni giorno, botte. Botte che sono vere e proprie torture: «Mi picchiavano con un bastone sotto le piante dei piedi. Poi per giorni non riuscivo a camminare». Dopo averti piegato, gli aguzzini cominciano a chiederti i numeri di telefono dei tuoi familiari o di chiunque possa pagare il riscatto per la tua liberazione. In genere, qualche migliaio di euro. «Molti non sopravvivono. Ogni giorno c’era qualche morto… li caricavano sui camion e li buttavano nel deserto. Oppure in mare. Spesso a riva arrivano cadaveri e si pensa che siano i morti di qualche naufragio – spiega M. - ma non è sempre vero: in molti casi sono i morti delle prigioni libiche».
Un giorno, i carcerieri hanno preso M. F. e lo hanno caricato su un camion. M. non sapeva che la famiglia aveva pagato. Non si reggeva quasi in piedi. «Ho pensato che era finita, che mi avrebbero ucciso». E invece M. si è ritrovato su un barcone.

 Un fine lieto?

Oggi M. è stato “adottato” da una famiglia italiana, ha un lavoro e attende l’esito della domanda d’asilo. Non ha mai scelto, M., di venire in Italia. È stato scaraventato qui. Ma ha anche detto come funziona: «I trafficanti ormai vanno a cercare i giovani nei nostri paesi, nei villaggi; ti promettono un viaggio sicuro, ti dicono che con loro non avrai rischi. Ai miei amici rimasti là dico di non partire. Io stesso, se avessi saputo, non mi sarei mai messo in viaggio. Mai».
Certo, ancora molti sono allettati dalle sirene del benessere occidentale. Ma in tanti ormai sanno cosa si rischia. E se scappano, non lo fanno solo perché sognano una vita agiata. Ciò che sognano è la libertà. L’Occidente resta la Terra Promessa, non solo per lo standard di vita, ma anche e soprattutto per i valori che tanto sbandieriamo in giro per il mondo. Libertà, uguaglianza, pari diritti e pari opportunità. Che in molti paesi restano un sogno inarrivabile, un anelito profondo che anela ad essere soddisfatto. Salvo poi arrivare qui e scoprire, spesso, che erano solo parole…