Progetti, non promesse

È necessario il passaggio dalla democrazia del consenso a quella del convincimento

 di Stefano Zamagni
economista

 I politici non mantengono le promesse. È questo un ritornello, diventato ormai luogo comune, che gravi danni provoca alla causa del bene comune.

«La politica - ha scritto papa Francesco - tanto denigrata, è una vocazione altissima; è una delle forme più preziose della carità. Perché cerca il bene comune». Cosa c’è alla radice del fenomeno? È forse perché i politici sono diventati persone talmente irresponsabili da prendere impegni che poi non mantengono? Oppure, vi sono ragioni di natura strutturale che valgono a legittimare il comportamento di politici che non danno corso alle promesse fatte? Pur non potendo di certo escludere la presenza nelle nostre realtà della prima causa, è sulla seconda causa che intendo dirigere qui l’attenzione, perché è quella che, a mio giudizio, è di gran lunga la più rilevante (anche perché va sempre scongiurato il rischio di cadere nel moralismo ipocrita di chi colpevolizza i politici per celare le proprie responsabilità). In breve, si tratta di questo.

 Il marketing politico

Il modello di democrazia che abbiamo ereditato dal Novecento è quello elitistico-competitivo - per usare la celebre espressione di Max Weber - un modello basato sulla seguente analogia. Come nell’arena economica, le imprese competono tra loro per massimizzare il proprio potere di mercato - usando a tale scopo strategie varie di marketing - allo stesso modo, nell’arena politica, i partiti competono tra loro per massimizzare il consenso degli elettori, utilizzando all’uopo le varie tecniche di propaganda. Per vincere nelle elezioni occorre dunque acquisire consensi e questi possono essere “comprati” oppure possono essere ottenuti manipolando “la testa” dei cittadini. Ecco allora a cosa servono le promesse: a catturare l’adesione dell’elettore, ovviamente sprovveduto.
Ma una volta eletto, il politico non è tenuto affatto a dare corso alle promesse fatte: è lo stesso Max Weber a scriverlo nel suo celebre saggio. (Già agli inizi del secolo scorso, circolava nel Mezzogiorno la seguente storiella. Un candidato promette agli elettori: «Se mi darete lu voto, vi farò fare nu ponte». Una voce dal pubblico: «Nun tenimmo ‘o fiume». E l’altro, prontissimo: «Pure ‘o fiume, pure ‘o fiume!»).

 L’alternativa esiste

Che fare per porre termine a tale malcostume che, soprattutto in questo tempo, ha raggiunto livelli davvero preoccupanti? La soluzione non può che essere quella della transizione al modello di democrazia deliberativa, un modello di cui si va parlando, ormai da un ventennio, in quasi tutti i paesi dell’Occidente avanzato, ma non in Italia! Secondo tale modello, il politico che si presenta ad una tornata elettorale è tenuto a sottoporre i suoi progetti alla valutazione dei cittadini. Cos’è un progetto? È l’enunciazione dell’obiettivo che si intende raggiungere, accompagnata dalla esplicitazione della via da percorrere per conseguirlo. Mi spiego con un esempio concreto. Non è consentito che il politico prometta di ridurre la pressione fiscale di tot punti se, in pari tempo, non si precisa di quanto diminuirà il gettito fiscale e, in conseguenza di ciò, quali saranno le poste del bilancio statale che verranno decurtate. Se ad esempio fosse che per far fronte alla diminuzione di gettito, il candidato proponesse di tagliare la spesa sanitaria e/o la spesa per l’educazione, io elettore potrei votare contro quel candidato. E così via.
In buona sostanza, mentre con la democrazia elitistico-competitiva vince chi ottiene più consensi, con la democrazia deliberativa, vince chi più con-vince. Non solo: mentre con il primo modello il cittadino resta un soggetto passivo di decisione, con il secondo modello questi è posto nella condizione di argomentare e quindi di prendere parte attiva nel processo decisionale. Sorge spontanea la domanda: si può ragionevolmente sperare di vedere attuato il metodo deliberativo nel nostro paese in tempi non troppo lunghi? Lo credo proprio, perché la politica italiana ha ormai toccato il fondo; ha cioè toccato il punto di svolta inferiore e le persone normali hanno già cominciato a percepire i rischi mortali del populismo antidemocratico. Si va cioè prendendo coscienza del significato devastante della massima, attribuita al cardinale Carlo Carafa, legato pontificio presso Enrico II, re di Francia, secondo cui «vulgus vult decipi, ergo decipiatur», («il volgo vuol essere ingannato, dunque sia ingannato»). Non è forse vero che i populisti non sarebbero tanto sfrontati se il popolo non fosse così irresponsabilmente credulone?  

 Diffondere l’epidemia della virtù

Bisogna però darsi da fare, attingendo alle radici profonde della nostra matrice culturale. Di una sola di queste ho qui lo spazio per dire. L’illuminista napoletano Giacinto Dragonetti, allievo di Giovan Battista Vico e di Antonio Genovesi - il fondatore del paradigma dell’economia civile -, nel suo fondamentale saggio del 1766, Delle virtù e dei premi, scrive: «Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti e non ne hanno stabilite pur una per premiare le virtù». E poco più avanti: «La virtù per verun conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altrui sudore».
Ecco allora la via da battere: premiare i comportamenti virtuosi dei politici. Qual è il premio che si deve al politico virtuoso? Il riconoscimento. Lodare è dire il bene che viene a noi e che è per noi. Aristotele ci ha insegnato che la virtù è più contagiosa del vizio, a condizione che venga fatta conoscere. Occorre dunque impegnarsi di più su tale fronte. Soprattutto devono farlo i nostri mezzi di comunicazione ancora troppo succubi della logica della notizialità. Per costoro, le cose buone non fanno notizia e pertanto non vanno narrate. Il che è fattualmente falso oltre che moralmente inaccettabile.