La sala è piena e, nel chiacchiericcio di fondo, la voce di Maura ci invita ad accomodarci: «Miei cari, oggi celebriamo un compleanno! Questo è l’ottavo anno che collaboriamo con Messaggero Cappuccino: evidentemente non sono ancora stanchi di noi. Un bel motivo per essere soddisfatti, vero? Oggi comincia anche un anno nuovo della rivista: il tema sarà “l’uscire”. Che cosa vi fa venire in mente? Cosa significa per voi uscire?».

 a cura della Caritas diocesana di Bologna

 Con un ritmo fluente di vita

“Sì, viaggiare”, cantano la periferia e il centro

IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE

  

Immediata parte una serie di sollecitazioni: «L’uscire per me è per venire qui» dice Gabriele

. «Per me invece significa “uscire dal guscio”» ribatte Svetlana, arrivata oggi per la prima volta. «Si esce per cambiare» afferma convinto Daniele. Maura sorride: «Uscire significa anche mettersi in moto, significa rompere l’immobilismo di quando si dice “sono fatto così” o anche “si è sempre fatto così”… L’argomento di oggi però è più specifico: parleremo dell’uscire per andare verso le periferie…Certo non un argomento semplicissimo.

 Per vedere l’effetto che fa

«Allora vi propongo il gioco delle associazioni: se dico la parola “periferia” che altra parola vi viene in mente?».
Di nuovo piovono parole nel cerchio e la periferia viene associata a lontano, emarginazione, desolazione, criminalità, espansione, disagio, squallore, migranti ma c’è anche chi la collega ad aria, lusso, diversità, convenienza e gli altri. Maura osserva la fila di parole sul cartellone, ci pensa su un attimo e rilancia: «Direi che prevale una visione piuttosto negativa; perciò mi e vi chiedo: ognuno di noi rispetto alla periferia, cosa prova? Ci respinge? Ci attira? Ci abitiamo? La evitiamo? Che esperienza ne abbiamo? Che effetto ci fa?».
«Beh, dico solo che io vivevo in una casa, ero tranquillo con la mia compagna» parte Daniele «ma poi ho sentito la necessità di andare a vivere lontano, in un bosco, dentro una comunità. Per me la periferia è un laboratorio a cielo aperto, in continua evoluzione, non significa affatto essere emarginati. Sentirsi emarginati è qualcosa che vivi dentro: anche sotto le due torri uno può sentirsi così!».
«Io abitavo in un capannone industriale lontano dalla città, eppure stavo bene perché avevo lo spazio» ribatte Matilde «mi sentivo a mio agio anche se ero in periferia; in effetti mi sento molto più emarginata qui, vivendo in città. Fuori c’è una necessità di adattamento, ma c’è anche più libertà».
«La mia esperienza è simile» dice Franca «ho proprio scelto di abbandonare il centro per andare in periferia: volevo un maggior contatto con la natura. Certo i viaggi di ritorno verso casa ora sono più lunghi, ma la gente è più accogliente rispetto alla città».

 Voglio una stella che sia tutta mia

«Ma allora, la periferia secondo noi non è affatto inferiore al centro» considera Maurizio osservando il cartellone con la raccolta di associazioni «io però intendo la questione diversamente: uscire dal mio centro, significa connettermi con gli altri ed io amo molto questo viaggio verso gli altri».
«Beh, a volte però io mi sento messa in periferia proprio dagli altri» aggiunge Maria Rosaria con l’amarezza nella voce «ad esempio quando le persone mi ascoltano parlare, capiscono che sono meridionale e mi guardano schifati».
«Credo sia importante distinguere» interviene Carla «io abito in centro e per me le periferie sono quelle che vedo alla TV. Sono spazi deprimenti, dove non ci sono servizi, né biblioteche, poche scuole fatiscenti… quando penso alla periferia penso soprattutto a quei luoghi abbandonati a se stessi, nei quali le istituzioni non ci sono».
«Io mi ritengo da sempre una persona periferica» si inserisce Francesca, la voce flautata «come dire? Io ci sono, ma con una visione un po’ decentrata di me. Ho preso questa abitudine: ogni tanto mi chiamo fuori, proprio per vedere le cose a distanza. La periferia per me è uno spazio personale per ritrovarsi un po’ e per godere di una visione più completa di sé stessi e della realtà».
«Io ho vissuto l’esperienza della periferia in quello che era stato il mio cammino di fede» è la voce di Maura a parlare «era un periodo di crisi per me: tante cose, che mi erano state insegnate o dette sulla religione e la fede, non le sentivo più vere. Mi sentivo in catene. Capitò che mi fosse proposto di partecipare ad una due giorni presso una associazione che offriva una visione molto più aperta su questi temi spirituali ed io andai. Quella stessa domenica però i miei bambini di catechismo ricevettero la cresima senza di me. Questa mia scelta fu considerata in parrocchia un vero scandalo, ma io quel giorno cominciai a respirare un’aria nuova e sentii le mie catene iniziare a sciogliersi… Ecco: quell’esperienza di mettermi da parte, di scegliere la periferia rinunciando al mio ruolo di catechista, fu molto molto positiva».
«Sentite, che sia periferia o centro, io comunque riscontro un grande calo di negozi e anche di luoghi di cultura in città» interviene Gabriele raffreddando bruscamente la temperatura emotiva «per me la periferia è davvero una desolazione! Pur vivendo lontano dal centro faccio fatica a trovare qualcuno disposto anche soltanto a dirmi un “ciao!”».

 Ho visto anche degli zingari felici

«Mah! Secondo me stiamo troppo estremizzando» si fa avanti Maurizio un po’ indispettito «ma perché dobbiamo per forza pensare che una cosa sia buona e l’altra no? Il centro e la periferia sono  comunque sempre collegati. Impariamo dalla civiltà romana: conquistavano le altre città, ma non ne deportavano i popoli, costruivano invece dei collegamenti. Per questo è diventato un impero! Io sono il mio centro, è vero, ma sono collegato con gli altri e in questo collegamento io mi realizzo veramente: non c’è alcun antagonismo. Se il centro tratta bene la periferia, questo rapporto fa crescere e valorizza entrambi».
Di colpo l’atmosfera nel cerchio cambia. «Ma allora: cosa possiamo fare perché centro e periferia si incontrino? Datemi delle soluzioni!» dice Maura e si avvicina al cartellone con il pennarello in mano. Piano piano si compone davanti ai nostri occhi la ricetta per un equilibrio sano fra gli estremi. Di certo servirà provarci, ma anche aver voglia di incontrarsi, aver interesse e rispetto reciproco, ascoltare i problemi degli altri, metterci tempo ed attenzione, amarsi di più, imparare a comunicare, cambiare il linguaggio, darsi da fare…
«Ecco qua, amici, abbiamo il programma per un prossimo governo!» esclama Maura con il sorriso negli occhi. «Viva il governo di Maura!!» le fa eco Matilde. Evviva la repubblica del tè!