Il palombaro che conobbe il mare

Per sperimentare la periferia, non si può sfiorarla, bisogna immergercisi

 di Fabrizio Mandreoli
teologo, scrittore e membro del gruppo di lavoro Insight

 «Signore, ognuno di noi è a una delle tue frontiere […] noi avevamo pensato che tutti i paesi fossero segnati sulle carte geografiche e che le linee nere che indicano le ferrovie e i battelli fossero sufficienti per andare dagli uni agli altri.

Vivendo in mezzo agli uomini, noi abbiamo imparato il contrario. Se ci sono carte geografiche in estensione, ce ne vorrebbero in spessore» (M. Delbrêl, Missionari senza battello – in occasione della partenza di missionari dal porto di Le Havre 1943). 
Da alcuni anni, prima in maniera più dispersa, poi con un desiderio di ricerca maggiormente unitaria – attraverso il centro di ricerca Insight – con un gruppo eterogeneo di persone abbiamo intrapreso un lavoro di esplorazione di alcuni contesti ‘periferici’. Esplorazioni fatte di studio, di permanenza in tali ambiti, di progressiva conoscenza delle persone e dei loro percorsi, di interviste in profondità, di lunghi dialoghi e serrati confronti. Alcune di queste esperienze sono diventate dei film documentari (Dustur, I nostri, Nel bene e nel male, Covid youth), articoli di approfondimento e di divulgazione, dei piccoli libri (In bilico, Viaggio intorno al mondo, Cire #40138 Identità in movimento), delle trasmissioni radio e/o video (soprattutto nel lavoro svolto dalla radio per il carcere Liberi dentro–Eduradio). Tra i contesti ‘esplorati’ si trovano, ad esempio: il carcere e il complesso mondo della detenzione, la vicenda di un centro giovanile per adolescenti della periferia di una grande città, la realtà estremamente dinamica delle comunità credenti e oranti – di cattolici, evangelici, ortodossi, copti, musulmani, ebrei, baha’i, sikh – composte da immigrati e immigrate provenienti da ogni parte del mondo, la realtà di un non piccolo gruppo cattolico di riflessione e preghiera del mondo LGBT+.
Senza voler descrivere nel dettaglio il lavoro svolto, ci pare utile tratteggiare alcune convinzioni che danno forma ad un modo di procedere e che sono frutto, a loro volta, di un serrato contatto con contesti liminali, sfrangiati, ai bordi.

 Vedere e sostare

Una prima convinzione – o meglio maturazione avvenuta – riguarda il riconoscimento dei mondi cosiddetti periferici. Si tratta di un processo non scontato, in quanto ciò che non si trova al – presunto – centro della vita sociale e della vita ecclesiale spesso viene evocato, raccontato, commentato ma non visto. Per vedere intendiamo l’incontro con le persone, le loro traiettorie biografiche, i loro contesti di vita concreti: incontro accompagnato da un lavorio costante su sé stessi, sulla propria sensibilità e intelligenza, sulle rappresentazioni personali e collettive. Credo che chiunque sia entrato con consapevolezza – sono solo esempi – in un carcere, in uno spazio periferico e dolorante, in un campo rom, in certe case, abbia ad un certo punto sentito dentro di sé un doloroso balzo della coscienza che suggerisce qualcosa tipo «ma dove sono stato finora? Ma come ho/abbiamo fatto a non vederli sin qui?». Tale cultura dell’attenzione comporta, quindi, un movimento in quattro tappe: a) riconoscere il contesto liminale, b) guardarlo per quello che è, in un modo – il più possibile – pulito e senza troppi fraintendimenti, c) dargli peso e importanza, d) permettere l’accendersi di domande su di sé e sul proprio contesto.
Una seconda riflessione verte sull’importanza di un contatto prolungato con questi mondi. Non si tratta, infatti, solo di vedere, ma di sostare, di rimanere. Si potrebbe citare qui il vangelo di Luca in relazione all’episodio di Zaccheo quando afferma che Gesù attraversava la città. Un lungo attraversamento fatto di studio e contatto diretto, di letture e di osservazione diretta, di soste “contemplative” e di ascolto non distratto delle situazioni e delle persone. Ci sembra che qui non possa mancare una lenta – e a volte dolorosa – capacità di revisione delle proprie idee, di ridiscussione dei propri pregiudizi, di accettare lo scacco da realtà difficili da spiegare e immaginare. Tutto questo ha anche una dimensione spirituale e teologica in quanto il contatto con il «nodo del dramma umano» implica un lavorio interno, una intensa ricerca spirituale, un’accettazione della propria frequente ottusità rispetto alle realtà più sfidanti, una revisione delle proprie categorie teologiche spesso ossificate e senza vita.

 Insieme si ascolta

Un terzo elemento riguarda la dimensione collettiva di tali esplorazioni. Non si possono conoscere certi mondi da soli. Certo, il lavoro eccezionale – come geografo, linguista e testimone evangelico – di una figura come Charles de Foucauld con i Tuareg pare a prima vista l’opera di un solitario; ma, a ben vedere, tutto il suo cammino è stato intessuto di incontri, confronti, legami crescenti con i propri vicini e amici Tuareg. È, dunque, un lavoro che va fatto con altri ed altre in un confronto serrato, nella coscienza che nessuno ha una chiave per decifrare tutti gli strati della realtà, ma solo insieme si possono cercare ipotesi e tentativi, sempre rivedibili, di comprensione. In merito a questo, nella nostra piccola esperienza due aspetti sono stati progressivamente sempre più chiari.
Il primo: per conoscere porzioni della realtà è fondamentale muoversi in équipes, in piccoli gruppi di lavoro formati da persone di età e provenienze diverse. Serve un confronto serrato tra le generazioni nel tentativo di capire quello che succede e non è possibile pensare di accostarsi alla realtà escludendo fasce di età e di esperienza. Sia detto come inciso: è serissima la situazione di un insieme sociale – o ecclesiale – che non riesce più a tener conto della sensibilità e della capacità di visione del mondo giovanile. Un secondo aspetto: l’attraversamento dei mondi periferici progressivamente svela che solo le persone che li abitano possono aprire dall’interno tali spazi. Sono loro che rappresentano i primi e veri attori di queste esplorazioni, che aprono porte, comprensioni, rappresentazioni del mondo.  Le nostre esplorazioni si sono così – progressivamente e metodologicamente – trasformate in un dare la parola, in un lasciar spazio, in un lasciare esprimere e venire alla luce.

 L’incontro col mistero

Un quarto elemento di fondo è connesso con quanto appena detto. Il tentativo di conoscenza delle biografie e dei contesti ad un certo punto – ed in maniera sempre più intensa – conduce non solo ad interrogarsi sui contesti e sulle vicende umane che vi si svolgono, ma sul nostro sguardo e sul modo con cui ci posizioniamo nel mondo. Due filosofi e antropologi per noi molto importanti – Ivan Illich e Bruno Latour – hanno mostrato da tempo come lo sguardo dei moderni e degli occidentali – quindi anche il nostro – è afflitto in maniera strutturale da un senso di superiorità con radici coloniali, è pervaso da molta violenza, è animato da una presunta obiettività e, per il nostro mondo cristiano, da uno sguardo che spesso si presume nel giusto, nel bene e nel centro. Talora papa Francesco afferma che la verità si trova nell’incontro, crediamo che questo sia interpretabile proprio nel senso che certe ricerche ed incontri conducono – come per Zaccheo – ad un desiderio di cambiamento, ad un appello a discendere dall’albero delle proprie presunzioni personali e collettive, ad una ricerca di maggiore giustizia, ad una domanda di salvezza – in termini religiosi e/o esistenziali – della propria e altrui vita. I luoghi e le esperienze che si trovano sul confine della vita umana e sociale contengono così una spinta alla conversione personale e sociale. 
Un quinto elemento che progressivamente si è maturato è il senso del mistero che avvolge le vite di chi per qualche ragione si trova ‘fuori’ o sul ‘confine’. Con la parola mistero intendiamo qui la percezione della presenza di qualcosa di importante, di rilevante per l’umano che ci abita, di un contatto con ciò che tocca ultimamente ogni esistenza umana (Tillich). È stata un’esperienza frequente: certi dialoghi, gli accenni a sofferenze non dicibili, alcuni squarci su ferite e fratture, il baluginare di tenacissime ricerche di senso, sono eventi che, avvenuti durante le nostre ricerche, hanno aperto il senso del contatto con il mistero. Come affermato dal fotografo Salgado: «le persone sono il sale della terra». Per chi si riconosce in una interpretazione cristiana, tutto questo può essere letto come la percezione della gloria di Dio nella vita dell’uomo (Ireneo) o con la presenza del mistero del Figlio dell’uomo che ha rivelato in pienezza il volto di Dio in una esistenza marginale e sconfitta (Agostino, Lutero). Le nostre ricerche si muovono, però, in uno spazio laico e quindi ci fermiamo sempre sulla soglia di tale interpretazione che lasciamo alla riflessione ecclesiale e alla lettura teologico–spirituale, constatando però come il contatto con i nodi di certe esistenze (ci) parla in profondità e ci fa «persistere nel non sapere qualcosa d’importante» (Szymborska).