Giona nella carena

Dal mare, naufrago, arrivò il profeta. La balena di ieri, i barconi di oggi.

 di Ignazio De Francesco
monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, studioso di patrologia e di islamistica

 Ho incontrato Giona in quella periferia d’Europa (e del mondo) che è Lampedusa.

L’occasione è stata l’incontro interreligioso organizzato proprio lì, lo scorso giugno, da don Giuliano Savina, inesausto direttore dell’Unedi, l’organismo della Cei che raduna fedi e culture, per il bene della città e delle comunità cristiana che in essa vivono. Che cosa volete, dunque? Scrivici un testo da recitare e musicare, che dia voce al “profeta ribelle”, quello che fugge dal comando di Dio, naufraga nella vita e viene inghiottito da un enorme pesce, infine si piega ad annunciare la Parola alla grande città, Ninive, che grazie alla sua predicazione si salva dalla distruzione. Questa la richiesta, ma con un di più problematico e avvincente: mettere in dialogo, attraverso Giona, Bibbia e Corano.
La Bibbia, com’è noto, contiene un libro che porta il suo nome: il testo è breve (48 vv), ma ha il vantaggio di offrire un filo narrativo coerente, che si presta quindi alla drammatizzazione. Più problematico è il Giona del Corano, al quale sono dedicati solo 15 vv, sparsi in quattro capitoli (sura 10,98; 21,87-88; 37,139-148; 68,48-50) e per di più caratterizzati da quel tratto asistematico e allusivo, che per chi scrive è indizio, una volta di più, della natura omiletica del Libro sacro dei musulmani: chi ascoltava il Predicatore in diretta non aveva bisogno di tanti particolari, conosceva bene la storia. Bisognava allora impastare il tutto con il lievito dei commentari, le tradizioni esegetiche giudaiche cristiane e islamiche che hanno dialogato nel corso dei secoli, aldilà dei confini (rispettabilissimi) dei reciproci dogmi. 

Una nuova dimensione

In tutto ciò Ninive svolge un ruolo fondamentale: nel racconto di Giona, essa si salva dalla distruzione. Il personaggio storico potrebbe essere vissuto nell’VIII sec. a.C., al tempo del re d’Israele Geroboamo II (cfr. 2Re 14,25), ma opinione comune dei critici è che il libretto a lui intitolato sia di epoca postesilica, intorno al V sec., quando la Perla d’Oriente, capitale mozzafiato dell’impero assiro, era sparita da un pezzo sotto la sabbia. Ma da sotto la sabbia Ninive parla, perché il simbolo che rappresenta ci interpella direttamente.
Il lavoro del testo teatrale, che ha iniziato a girare per l’Italia, è stato dunque un’occasione per far rete tra le tradizioni religiose. Prendiamo la faccenda del pesce che ingoia il Profeta, una cosa da film dell’orrore, anzi una tragica realtà di tanti naufragi che accadono sotto i nostri occhi. Ma le narrazioni religiose producono un altro livello di significato. Così, secondo le esegesi rabbiniche, Giona entra nella sua bocca come un uomo entra nella grande sinagoga. I due occhi del pesce erano come due finestre e facevano luce a Giona. Una perla era appesa nelle viscere del pesce, gli faceva luce e vide tutto ciò che c’è nei mari e negli abissi. Qualcosa di molto analogo viene prodotto dai sapienti musulmani: quando Giona cade in acqua, Dio ordina a un pesce di ingoiarlo ma senza spezzargli un solo osso. Non solo: rende trasparente la pelle del pesce, così che possa vedere ogni cosa intorno a sé. Giunto nelle profondità abissali un mormorio misterioso attira la sua attenzione, cosa sarà mai? Allora Dio gli rivela che è il canto di lode di tutte le creature. A quel punto anche lui si mette a cantare con i pesci del mare.
Giona nella bocca del pesce è così la metafora di un grande mistero: l’accesso a una nuova dimensione dell’esistenza attraverso un’esperienza di morte. È come se in quella prigionia, attraverso quella disperazione negli abissi del mare, Giona avesse scoperto una nuova dimensione dell’esistenza. Contempla cose mai viste prima, ascolta cose mai udite prima, entra in un nuovo rapporto non solo con se stesso ma anche con il cosmo intero. Di tutto questo, la tradizione cristiana offre una chiave, attraverso le parole di Gesù, che proprio in relazione a lui spiega così il proprio mistero: «Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel cuore della terra, così il figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40). Gli abissi delle acque simbolo degli inferi, il mostro marino simbolo della morte che cerca di inghiottire il Figlio dell’Uomo, di spegnere il lucignolo fumigante, e infine la risalita, per la vita della città.

 La salvezza vien dal mare

Sì, perché la storia di Giona ha un secondo livello, non meno importante del primo: la salvezza di Ninive, una delle più celebri città dell’antichità, soprannominata Perla dell’Oriente. Gli archeologi hanno trovato tracce preistoriche che risalgono ad oltre ottomila anni fa. Ma è con gli assiri di Sennàcherib, circa settecento anni prima di Gesù, che diventa una metropoli senza eguali, abitata da oltre centomila persone. “Senza eguali” è appunto il nome del suo palazzo imperiale, il segno tangibile di una potenza militare senza rivali. Adagiata sulla riva del Tigri, all’incirca dove oggi c’è Mosul, Ninive diventa famosa per le sue case di lusso, i parchi lussureggianti, i giardini pensili, gli acquedotti, i grandi viali alberati e la biblioteca immensa. Anche la cultura è dunque nelle sue mani: Ninive è infatti all’avanguardia nella medicina, nell’astronomia, nella matematica, nelle tecnologie e nelle arti. Possiede tutto e non ha bisogno di nulla.
Può apparire paradossale, ma nella logica delle tradizioni religiose la salvezza di Ninive giunge dal mare, da un naufrago, uno che è stato vomitato sulla spiaggia del mare, come un rifiuto. Corano, sura dei Ranghi: «Lo inviammo a centomila, o ancor di più». Uno contro centomila, e quell’uno persino uno straniero, chi vuoi che lo ascolti? La si direbbe un’impresa disperata, ma Giona ci prova, la Bibbia dice che comincia a percorrere a piedi la città da un capo all’altro, gridando: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». A questo punto, secondo il racconto, accade l’incredibile: la notizia giunge al re, che si alza dal trono, si toglie il manto, si copre di sacco e si mette a sedere sulla cenere, ordina che tutti facciano altrettanto, uomini e bestie.

 E il mondo cambiò

Il Corano, sura di Yūnis, descrive così l’effetto dell’annuncio: «Quando ebbero creduto allontanammo da loro il castigo ignominioso».  E la Bibbia: «Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia». Per spiegare il rovesciamento, gli antichi commentatori ebrei dicono che non fu tanto questione di fede – quel che uno crede – ma di azioni, ciò che uno fa. In concreto? Dicono che vennero restituite ai legittimi proprietari persino le cose smarrite, ritrovate nei campi, nei vigneti, nelle strade e nei mercati. Se uno acquistava una casa e dopo vi scopriva un tesoro nascosto, andava alla ricerca di coloro che avevano abitato quella casa, sino alla trentacinquesima generazione, per restituire ciò che non gli apparteneva. E se in una casa c’erano dieci mattoni, provenienti da un furto, fossero persino nei palazzi costosissimi intoccabili dei re, la demolivano e restituivano i mattoni ai loro proprietari. Esagerazioni esegetiche cariche di senso.
Di Giona è stata data anche una lettura psicoanalitica, facendone una chiave per spiegare le nostre fughe, le nostre ribellioni profonde, il rifiuto di fronte alle responsabilità. Ma la forza del suo messaggio sta nell’appello alla conversione sociale e alla rinascita civile, che giunge non da un personaggio istituzionale, da un re, presidente o banchiere, ma da una persona che giunge a Ninive dalla periferia del mondo, come oggi accade a noi da Lampedusa.