Meglio ben accompagnati che soli

La diarchia nello scautismo è un prezioso arricchimento educativo

 di Daniela Dallari, Daniela Sandrini, Francesco Silipo
educatori come capi scout in AGESCI

 Nello scautismo, in particolare in quello italiano, coeducazione e diarchia sono temi che sono sempre esistiti con radici che affondano nelle origini del movimento.

Già Baden Powell (il fondatore), nella prima metà del Novecento, vedeva favorevolmente i campi tra rover e scolte (rispettivamente maschi e femmine di età tra i sedici e i vent’anni circa) come un’occasione irripetibile di crescita e di formazione. Prima della fusione delle due associazioni ASCI (maschile) e AGI (femminile) esistevano già presenze femminili in ASCI sia come ragazze nelle unità sia come adulti di riferimento. Nonostante la diffusione di queste esperienze, non è stato così semplice rendere effettiva una condivisione di responsabilità nella gestione del gruppo di ragazzi (le cosiddette “unità”).
All’inizio infatti la diarchia è nata da due tipi di preoccupazione, in particolare delle capo dell’AGI: da una parte di essere fagocitate dall’ASCI perché numericamente inferiori, dall’altra come messa in discussione di fondo del concetto di capo “centro del mondo”, diffuso in ASCI; di qui la proposta della diarchia anche come demitizzazione di questa figura. Lo sviluppo della diarchia ha avuto quindi terreno fertile sia nel contesto storico e sociale dei primi anni Settanta sia nella spinta della riflessione pedagogica ed educativa sulla coeducazione, che in quel periodo appariva come scelta profetica e che ha trovato piena dignità nel Patto Associativo di AGESCI sin dal momento della sua nascita con la fusione tra le due associazioni nel 1974.

 La coeducazione

La coeducazione è stata posta come principio fondante e come elemento tra i principali del metodo educativo: facciamo stare insieme ragazzi e ragazze, bambini e bambine, gli proponiamo di confrontarsi con ciò che è diverso, anche dal punto di vista sessuale, perché questo aggiunge un ingrediente indispensabile alla crescita. Costruiamo la nostra identità sia per identificazione con ciò che è simile a noi, ma anche per confronto e differenza con ciò che è diverso. La proposta della coeducazione ha sempre avuto come valore di fondo educare insieme maschi e femmine nel tentativo non di appianare le differenze (che è un altro tipo di rigidità dei ruoli), ma nel valorizzarle perché ciascun individuo possa crescere al meglio delle sue potenzialità.
La coeducazione consente di offrire percorsi di crescita che abbiano al centro la persona nella sua unicità, non perdendosi nella facilità delle spiegazioni lineari massificate. Una delle domande di oggi è quella dei modelli con i quali dobbiamo confrontarci: uno di questi è il mito del corpo che sempre più rischia di essere un corpo neutro. Per fare in modo che questo valore non fosse solo teorico o non solo una proposta da far vivere ai ragazzi e alle ragazze, ai bambini e alle bambine, l’AGESCI ha deciso di renderlo concreto e darne testimonianza attraverso la scelta di affidare a una capo e a un capo insieme, a tutti i livelli, la responsabilità educativa, organizzativa e gestionale, in un binomio di esercizio anche disgiunto del potere, ma che non può prescindere dalla condivisione preventiva dei pensieri e delle decisioni.
Questa scelta è stata resa operativa anche prevedendo che la responsabilità educativa fosse affidata non al singolo educatore, ma a una Comunità capi all’interno delle quali capi e capo condividono scelte e modi del proprio servizio educativo: la diarchia diventa così concreta nel senso che non è più solo un tema organizzativo, ma diventa un argomento di condivisione, di gestione del potere e di cura delle relazioni con i ragazzi e tra adulti.

 Una realtà quotidiana

La diarchia è uno strumento di confronto da una parte con gli stereotipi sociali e culturali, dall’altra anche con i modi di essere delle singole persone, donne e uomini, e di come ciascuno vive questo rapporto con l’altro da sé. È diventata una vera ricchezza del percorso educativo in AGESCI perché consente di educare anche alla democrazia, proponendo un modello di condivisione e di progettazione che mette insieme modalità di approccio al mondo diverse: un altro mondo realmente possibile. È la proposta di un modello in cui la distinzione dei ruoli viene superata, vengono valorizzate le specificità e sensibilità diverse nella costruzione di una reciprocità: fare insieme rispettando tempi e modi di ciascuno, dividere gli aspetti di cura e di organizzazione, così come quelli di ascolto e di richiamo, diventano il modo reale di crescere insieme di cui è possibile fare esperienza nelle attività scout.
Confrontandoci su questo articolo, ci faceva un po’ sorridere l’idea di raccontare una dimensione che per noi è quotidiana, normale, quasi scontata: siamo cresciute e cresciuti con capo e capi che hanno giocato con noi, camminato, acceso il fuoco, incontrato persone, che ci hanno consolato, ascoltato, sgridato e che ci hanno dimostrato il bello e l’unico della presenza di tutti. E, quando siamo diventati capo e capi, abbiamo anche scoperto la fatica di tenere sempre presente l’altro, di fare delle differenze e delle diverse visioni un punto di partenza per costruire un insieme con le diverse sfumature.

 È uno stile profetico

Riprendiamo le parole di Marilina La Forgia e Matteo Spanò, che sono stati presidenti dell’Agesci intorno al 2015, in un’intervista (https://pe.agesci.it/articolo/le-capo-e-i-capi/) sul tema della diarchia a Proposta Educativa, la rivista dei Capi dell’AGESCI: «La diarchia mi ha impegnata profondamente e mi ha resa più consapevole. Ma ogni esperienza resta per me del tutto singolare. Con ognuna delle persone con cui ho condiviso il servizio si è generata una preziosissima unità e unicità. Se è vero che parte della nostra identità si definisce in relazione a un’altra, non ci sono esperienze di diarchia che possano essere davvero ripetibili (Marilina). Più che come esperienza della diversità, posso dire che della diarchia ho vissuto il senso della complementarietà e anche della complicità, intesa come orizzonte e passione comune: in fondo corpi diversi ma una sola unità generativa. Credo, inoltre, che la diarchia mi abbia aiutato a scoprire i miei limiti ed anche ad accettarli un po’, insomma a volermi più bene (Matteo)».
Possiamo dire quindi che questa è la fatica di oggi della diarchia e forse anche la sua dimensione profetica: non si tratta di uguaglianza, che esclude le differenze rischiando di negare le varie sensibilità, ma equità che pareggia i diritti riconoscendo i diversi approcci al mondo. Per questo è una proposta che viene tradotta in metodo, cioè in modo di gestire vicinanze e distanze a seconda dell’età e del tempo di vita di ognuno, che passano necessariamente attraverso la relazione tra bambini e bambine, ragazzi e ragazze con capo e capi che vivono e si propongono come esempi di una relazione di profondo rispetto e reciprocità possibile. Così come negli anni Settanta coeducazione e diarchia sono nate dalla capacità di capo e capi, di comprendere e sostare nella complessità di quel contesto storico, crediamo che anche oggi dobbiamo ispirarci al medesimo stile profetico per essere capaci di leggere i segni dei tempi e di trarne indicazioni complesse, non lineari, che abbiano però al centro sempre il rispetto per la persona.