Qui abbiamo paura di essere soli e l’appartenenza, anche solo formale, ad una comunità può farci dimenticare, almeno per un po’, la solitudine. Non scompare, ma te ne dimentichi. Inganni te stesso, crei intorno a te un sogno. Ma resti solo, sempre e comunque. Appartenere è solo una sostanza inebriante. La religione è tutt’altro, ha come obiettivo la piena consapevolezza di sé stessi che rende palpabile anche l’austera bellezza della solitudine.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

Appartener m’è dolce in questa pena!

Il sacro in carcere è spesso equivoco

DIETRO LE SBARRE

Attrazione fatale

Sono un certo numero quelli che chiedono i sacramenti, ma i motivi sono diversi.

Alcuni vogliono impegnare il tempo della sosta forzata per spendersi in qualcosa di utile. Altri si lasciano prendere da un improvviso interesse religioso, che assomiglia ai fuochi fatui. Altri nutrono aspettative magiche, pensando che le cose andranno meglio se si mostra una qualche forma di interesse religioso.
L’analfabetismo religioso è ben rappresentato, ma anche quando la religiosità è “informata”, lo sconfinamento nella superstizione è frequente. Ad ogni buon conto, la catechesi per i “catecumeni di ritorno” non richiede una trasmissione di regole o di formule, ma piuttosto la condivisione di esperienza di Dio. Diventa il tempo e il luogo propizio per porsi accanto a fratelli che avvertono il bisogno di gestire le loro fragilità, vulnerabilità e fallibilità di fronte a scelte che li hanno portati a vivere situazioni di enorme disagio.

Mariolina

 Dimmi come mangi e ti dirò come credi

Chi è recluso percepisce il sacro in modo originale rispetto a chi è libero, e spesso attribuisce ancor più importanza a questa dimensione esistenziale. Quando si finisce in carcere la fede nel Signore spesso si rafforza, perché rappresenta un’ancora di salvezza nel mare di sofferenza. Si accentua anche la rilevanza, nella vita quotidiana, di pratiche ed elementi materiali ritenuti consacrati e benedetti. Per i detenuti di fede islamica, che sono, dopo quella cattolica, la comunità più numerosa all’interno delle prigioni italiane, il momento che più riesce a rappresentare l’idea del sacro è il Ramadan, uno dei mesi del calendario musulmano in cui si deve digiunare.
Quando arriva il mese santo aleggia nell’aria un’atmosfera di serenità e pace, che spinge anche le persone che durante l’anno non sono praticanti ad intraprendere questa avventura. È un periodo di astensione dal cibo che diventa, proprio attraverso la rinuncia materiale, un tempo di purificazione dell’anima dai vizi e dalle negatività, come le parole volgari, le bugie, le discussioni inutili, e che costituiscono la vera profanazione del sacro. Questo è davvero palpabile nei reparti detentivi in cui alcuni praticano il digiuno: tutti hanno rispetto di questo evento. Il Ramadan è anche occasione per rispolverare e leggere il Corano, che è il sacro per eccellenza, anche se negli altri mesi spesso rimane in un angolo della cella come amuleto. I primi giorni di digiuno sono i più difficili perché il fisico non è abituato: alcuni interrompono l’esperienza perché non resistono all’astinenza, non solo dal cibo e dall’acqua, ma anche e soprattutto dalla nicotina; rimane comunque il rispetto per chi non si arrende e nessuno si permette di mangiare davanti a chi sta digiunando.
Nel pomeriggio comincia la preparazione della cena che deve essere di regola abbondante. Ognuno cucina qualche piatto tipico del suo paese e lo distribuisce agli altri compagni di cammino. L’odore del cibo attira i compagni di altre confessioni che vengono utilizzati come assaggiatori dal momento che i cuochi non possono assaggiare ciò che stanno preparando. Prima del tramonto i tavoli di tutti, anche di chi non ha disponibilità economiche, sono pieni di vivande di qualsiasi tipo. Infine, al richiamo del muezzin si interrompe il digiuno mangiando alcuni datteri, che sono considerati benedetti, accompagnati da un bicchiere di latte, secondo la tradizione. Si passa poi alla cena, e ognuno, con i suoi piatti tipici, integra l’esperienza spirituale con un ritorno alla propria cultura culinaria.

Emme I.

 Fede e superstizione di cella in cella

Se avessi pregato e avessi ascoltato la risposta di Dio quando ha cercato di attirare la mia attenzione, avrei evitato il dolore e l’onta della carcerazione. Non mi rendevo conto che la domanda del mio cuore era parte vitale dello scopo della mia vita, e senza saperlo cercavo il valore della vita nei luoghi sbagliati. Se poi vogliamo ottenere ad ogni costo ciò che bramiamo, ecco che spesso l’oggetto del desiderio comincia a dominare la nostra vita. Può essere il denaro, la fama, il sesso, la droga, il potere, e così il desiderare diventa schiavitù.
Se avessimo resistito alla bramosia, avremmo vissuto vite più significative e saremmo stati salvati dalle nostre stesse debolezze. Oggi, qui, possiamo solo far dono di noi stessi attraverso quello che facciamo nel nome del Signore. «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati»; «ora andate ed imparate cosa significhi voglio misericordia e non sacrificio, perché non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Ogni persona detenuta quando si sente perduta e pensa che Gesù non si interessi a lui, dovrebbe capire il significato di questi due versetti. Ci parlano di un Dio che perdona, ma che ci chiede anche di fare verità sui nostri errori, e di provare a cambiare vita. I peccatori sono ovunque, e per Dio Chiesa o Carcere non fa la differenza, ciò che importa è incontrare l’uomo.
Si può vivere in carcere e sopportare il rifiuto dell’uomo e della società cercando l’unica roccia salda che è una relazione autentica con Dio, solo se lo spirito è libero dai lacci e dai vincoli di una religiosità superstiziosa che imprigiona l’anima.

Fabrizio

 L’ambivalente che vale di meno

La dimensione del sacro in carcere è davvero complessa ed equivoca. Basta pensare a come viene storpiata l’immagine materna con le figure dei “mammasantissima”, termine che identifica la mamma con il boss, negli aspetti più cattivi e negativi, facendone talvolta un oggetto di venerazione. Spesso il culto delle Sante e anche della Madonna coincide, o è in qualche modo confuso, con il culto per le personalità che gestiscono attività criminose, evidenziando, non certo fede, ma credenze superstiziose. Si tratta, spesso, dell’espressione di un bisogno di protezione da parte di una mamma amorevole a cui affidare le sofferenze dei giorni di detenzione. La Beata Vergine di S. Luca campeggia nelle celle dei bolognesi, la Madonna del Carmelo in quelle dei pugliesi, la Madonna nera in quella dei marchigiani, e così via.
§Stessa sorte tocca anche ai santini e alle immagini dei santi protettori. A volte, inutile negarlo, sono il segno dell’utilizzo improprio che si fa delle immagini sacre nelle cerimonie di affiliazione ai gruppi criminali organizzati. In una ideale classifica il primato spetta senz’altro a Padre Pio, seguito a ruota da S. Antonio di Padova, da S. Gennaro e da S. Francesco, mentre S. Petronio è distanziato data l’esigua presenza di bolognesi; anche S. Michele Arcangelo e S. Giuda Taddeo hanno il loro spazio, non strettamente legato alla provenienza territoriale, ma piuttosto a quella valenza simbolica che lega inspiegabilmente il sacro con le storie criminali di molti che scontano la pena detentiva.

Marco