Sant’Apericena da Milano, prega per noi

Il “sacro” dei giorni nostri, dalle ferie alla movida

 di Saverio Orselli
della Redazione di MC

 «Si può sfrattare Dio?», si chiedeva Ragadi, il rapper milanese inventato da Checco Zalone e interpretato sul palcoscenico dell’ultimo festival di Sanremo.

E la risposta alla domanda nata sul «terrazzo dietro corso Como» guardando il Duomo, per il rapper con il morale a picco, è perfino scontata: certo, se solo non fossi ancora così “poco ricco”. Secondo il personaggio comico - ma temo non sia il solo a pensarlo - davanti ai soldi, a tanti soldi, anche Dio non può che inginocchiarsi e con lui i tanti che a suo nome ne gestiscono le proprietà, le risorse umane, le liturgie, i riti.
Ho l’impressione che le mascherine anticovid, indossate da tutti i presenti nel teatro sanremese, abbiano fatto un ottimo servizio, nascondendo la fatica di sorridere alle battute di Ragadi-Zalone, perché davvero non è mai facile ridersi addosso. Così, sentirsi in uno stato di inferiorità perché si possiede la versione 2 della Playstation quando è già uscita la terza o il penultimo - e quindi non ultimo - modello di smartphone, come cantato dal fin troppo probabile rapper, temo fosse una senzazione condivisa da molti in platea, così come nei salotti delle case italiane, davanti al televisore smart 65 pollici, ultra HD ad alta risoluzione, comprato in offerta un ‘venerdì nero’. Un vero affare. Non solo: diffusamente condivisibile con Ragadi era anche la tristezza - causata sempre da poca ricchezza - di non poter frequentare gli atelier delle grandi firme e doversi accontentare degli abiti dei grandi magazzini o non poter sfoggiare bolidi di marca o abitare a Brera (perché, pensando al «tuo quartiere galera… la vita non ha senso a tre chilometri da Brera») e non basta neppure la consolazione di poter acquistare i croccantini per il cane dallo chef stellato: non si è mai abbastanza ricchi per vivere bene.

 

Un sasso nello stagno

Una canzone dura pochi minuti e non può contenere il mondo, lo può solo far intravedere. Tutt’al più, può lanciare qualche sasso nell’acqua ferma dello stagno quotidiano, mostrando i tentativi in atto per sfrattare Dio, mutuando le terminologie religiose e spesso anche i simboli, per trasformarli in nuove sacre rappresentazioni. Dai rosari ridotti a ciondoli e collane, ai crocifissi divenuti orecchini e pendenti o immagini per strategici tatuaggi d’effetto.
Un tempo la domenica era sacra, “il giorno del Signore”, e, se pure non tutti andavano a messa, era considerata un giorno importante, da celebrare come momento di riposo dal lavoro di tutti i giorni - come Dio al termine della creazione - e di riflessione. Ora è sacro tutto il “fine settimana” (il termine weekend rende molto meglio l’idea) con le sue liturgie laiche, messe sì a dura prova dai due anni di pandemia, ma non vinte: dall’andare a mangiare fuori ai brevi viaggi, dallo shopping alle serate con gli amici. Magari incontrati durante un rito fondamentale, il più delle volte celebrato in strada, nelle ZTL, le zone a traffico limitato, spesso accompagnato dalla musica ad alto livello: l’apericena.
Come dice la parola stessa, non si tratta di una vera e propria cena, ma permette di tirare tardi e raggiungere altri spazi sacri dove sono previste altre liturgie, come la movida, denominazione esportata dalla Spagna degli anni Ottanta da poco uscita dalla dittatura franchista e, quindi, ben felice di poter tornare a respirare liberamente in strada, in un clima di vitalità sociale, culturale e artistica. La nostra movida non sembra particolarmente vitale dal punto di vista sociale, culturale e artistico, ma è diventata un diritto sacro e non si tocca, nemmeno se impedisce il sonno nel ‘fine settimana’ ai poveri residenti della zona.

 Pellegrini di oggi

Un altro diritto sacro e irrinunciabile si nasconde dietro le cinque lettere della parola “ferie”. La vita sempre più frenetica sarebbe insopportabile se non fosse scandita dal calendario liturgico delle ferie: invernali, estive, natalizie, pasquali, patronali e chi più ne ha più ne metta. Non è più il tempo delle lunghe ferie, trascorse nella stessa località turistica: ora il sacro rito prevede poche giornate (una settimana è già eccessiva) trascorse lontano da casa, possibilmente in luoghi ‘in’, che consentano l’attualizzazione di una canzone di tanti anni fa (1974) del grande Paolo Conte, dotata di un raro doppio titolo - Tua cugina prima e Tutti a Venezia - e un unico senso: «Vieni, facciamo ancora un’altra foto / col colombo in mano… / Sarai contento quando poi / tua cugina lo vedrà / che a Venezia siamo stati anche noi. / Tua cugina prima è stata a Roma / e ce lo fa pesar…». E se più avanti nel testo si cita una foto scattata (ad uso invidia dei parenti) del bidet dell’albergo in cui ha soggiornato la cugina, oggi si immortalano col cellulare le pietanze dei ristoranti per poi spedirle immediatamente al mondo…
La sacralità delle ferie, celebrata nel rito liturgico del turismo - in questo ambito la moderna giaculatoria “a chilometro zero” decisamente non ha attecchito - prevede molto spesso la libera adesione a percorsi preordinati, in grado di escludere o quantomeno ridurre il rischio di incrocio con situazioni fastidiose (povertà in evidenza, quartieri degradati, zone con elevata criminalità, ecc.) in grado di disturbare i fedeli, senza procurare danni alla convinzione diffusa di aver “visto” (e, quindi, conosciuto) quel Paese nei pochi giorni, se non addirittura ore, di visita.

 Convivere è meglio

A conclusione di questo elenco semiserio delle nuove forme sacre, non potevano mancare le apparizioni, che in passato hanno richiamato in luoghi spesso impervi folle oranti. Anche oggi la scelta dei luoghi impervi e difficilmente accessibili (soprattutto da parte delle forze dell’ordine) è confermata, mentre l’apparizione viene annunciata con indicazioni moderatamente crittografate, attraverso le reti social, con qualche giorno di anticipo. A quel punto i neofedeli partono da luoghi anche piuttosto distanti tra loro, dopo aver registrato i navigatori satellitari con le coordinate ricevute per raggiungere la località indicata, dove li attende la celebrazione a suon di decibel, potente musica ritmata dai nomi diversamente armonici - acid house, drum & bass, goa, jungle, psy-trance, tekno, techno… - e disponibilità delle sostanze adatte a trasformare l’incontro in un Rave Party. Festa libera, rigorosamente non autorizzata, che può durare poche ore come diversi giorni, soprattutto a seconda della difficoltà, da parte delle forze dell’ordine, di rintracciare il luogo dell’apparizione tecnologica.
Da una canzone all’altra, abbandonato il rapper Ragadi al suo triste destino di ‘poco ricco’, cerchiamo consolazione seria dal Blasco nazionale, che si prepara a riempire di nuovo gli stadi, per suonare e cantare a folle osannanti i suoi brani sempreverdi, a cui si aggiungono le ultime creazioni, come “Siamo qui”: «Siamo qui / pieni di guai / a nascondere quello che sei, dentro quello che hai /… / Siamo qui / soli e delusi / a confondere quello che sei, dentro quello che usi / Ma com’è? Ma cos’è? / Puoi rispondermi? / O vuoi nasconderti? / O vuoi proteggerti? / … / Non rispondermi / no, non rispondermi: / Puoi proteggerti / puoi nasconderti». Vasco è un grande: è ricco dentro (non solo), ma non sembra interessato a sfrattare Dio. Forse convivere è meglio.