I compromessi sposi

La politica è un accordo fra pluralità, non un matrimonio combinato per il potere

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

 Com’è stato possibile il terremoto elettorale del 2018? In cui 16 milioni di italiani si sono divisi tra un partito perfettamente quasi sconosciuto (Movimento 5 Stelle) e la Lega,

rinato, e segnato ancora dal leghismo che aveva dato di sé una immagine altrettanto “rapace” come gli altri partiti da cui voleva prendere le distanze? Probabilmente dobbiamo dire che una fase si è chiusa, quella in cui due partiti come il PD e l’area berlusconiana avevano dominato per i vent’anni precedenti.
E probabilmente la chiave è nell’analisi di quell’atteggiamento che va sotto il nome di “populismo”. Possiamo definirlo un insieme di modi di comunicare e di gestire la relazione con l’elettorato, utilizzate per la presa del potere. Si tratta di un movimento ad ampio respiro geografico, che permea moltissimo del mondo avanzato, e che forse trova in Italia una specie di traduzione paradigmatica, per la rapidità e la evidenza con cui si è andato affermando e con cui ha soppiantato il ruolo tradizionale dei partiti.
A livello generale, valido anche al di fuori dell’Italia, anche se sembra difficile indicare i caratteri specifici di cosa sia un partito populista, forse si può dire che, per i populisti, non è l’identità del partito che conta, non è sostenere una visione globale della società, che sembrano ancora non avere, ma adattarsi, come il camaleonte, ai diversi contesti elettorali, per uscirne vincitori.

 All’ombra di un monolite

Ciò non significa che il populismo sia vuoto di contenuti politici. In realtà alcuni tratti si possono definire, come dice Paolo Segatti, docente di Sociologia politica all’Università di Milano, «una visione antagonistica della società divisa tra due entità definite secondo criteri morali; l’idea di un popolo “puro”; l’idea della politica come espressione di una volontà generale. Il messaggio populista è dunque ontologicamente moralistico e contiene sempre un giudizio d’indegnità morale dell’avversario, qualunque cosa abbia fatto» (Il Regno - Attualità 18/2019, pp. 559-571).
Ma ancora - prosegue Segatti - «gli appelli populisti enfatizzano l’urgenza di riportare la sovranità democratica nelle mani del popolo. Il che si traduce in una retorica che rappresenta l’opinione della maggioranza di un popolo come l’opinione della totalità del popolo». Perciò popolo contro élite e maggioranza contro minoranza diventano i cardini del confine identitario del populista. Ne consegue una marcata tendenza a pensare che «il conflitto non sia un tratto strutturale di società divise tra parti. (…) I populisti suggeriscono che le opinioni individuali si devono uniformare all’opinione collettiva come si acconsente a un’evidenza di senso comune espressa dalla volontà popolare. Viene messa in ombra l’irriducibile diversità delle opinioni individuali e s’afferma l’idea che i problemi politici siano in realtà problemi tecnici o amministrativi», (Segatti, ibidem) risolvibili con la volontà di risolverli. Un radicale anti-pluralismo e insieme un radicale individualismo.
Sembra perciò che il processo decisionale democratico, e non tanto i contenuti delle possibili scelte politiche, siano al centro della riflessione dei populisti. Problemi rimasti spesso insoluti nella fase precedente delle democrazie e che oggi, per come sono affrontati mettono in discussione la disponibilità stessa dei singoli a fidarsi dell’istituzione. Sempre Segatti ricorda che «In Italia, per esempio, nel 2013 il 40% degli intervistati nell’indagine curata da ItaNES riteneva che fare compromessi in politica significa svendere i propri principi e 2/3 di questi ritenevano che le cose potrebbero andare meglio se a decidere fossero i cittadini. In sostanza la domanda di più democrazia diretta s’accompagna anche a monismo moralistico».

 Il sentimento dell’impolitica

Ma la questione ha radici lunghe. Sempre seguendo l’analisi di Segatti, già «nella Prima Repubblica, le ragioni per le quali gli elettori votavano questo o quel partito erano molte, alcune extrapolitiche. Ma tra queste la valutazione di quello che i governi facevano o non facevano aveva un peso trascurabile. Si trattava di un voto espressivo, attraverso cui l’italiano ribadiva la propria collocazione ideologica, a prescindere da ciò che al governo poteva succedere.
Dalle elezioni del 1994 il rapporto tra il voto e la formazione del Governo è cambiato progressivamente. Gli italiani hanno finalmente appreso che a chi governava poteva venire chiesto conto del suo operato. Ma, purtroppo, le classi politiche che si sono alternate alla guida del paese non hanno dato l’impressione di trarre le dovute conseguenze dalle punizioni subite. Sembra, perciò, che il comportamento della classe dirigente della Seconda Repubblica abbia generato una bolla di radicale sfiducia verso la classe politica e le sue capacità di governo. Una crisi d’autorità politica che si è tradotta in sentimenti fatalistici sulla capacità della politica in sé di risolvere i problemi del paese. Una bolla di impolitica che porta di volta in volta verso un nuovo leader che si presenta come il fixer in grado di risolvere personalmente tutti i problemi».
In questa fase immigrazione, rapporto con l’Europa e situazione economica sono stati i luoghi politici in cui l’erosione della fiducia verso la politica si è consolidata radicalmente. Per molti, perciò, sono cambiate le scelte di voto, ma non le opinioni che già erano cambiate da tempo, perché è cambiata la reputazione politica e morale del partito che prima votavano. Per moltissimi italiani già prima del 2018 i partiti erano ritenuti responsabili, in blocco, della crisi della situazione italiana. E non a caso la proposta di riduzione del numero dei politici ha ottenuto una enorme risonanza trasversale a M5S e Lega.

 Arriviamo ad oggi

E ora? La crisi si è indubbiamente aggravata, e i tentativi di governarla sembrano davvero essere naufragati. In meno di tre anni, abbiamo avuto due governi, di segno politicamente opposto, con lo stesso partito di maggioranza e con lo stesso presidente. Il loro fallimento, come scrive giustamente Gianfranco Brunelli, direttore della rivista Il Regno, «ha messo in luce un livello di strumentalità, di opportunismo, di trasformismo che ha pochi precedenti nella storia della Repubblica. Il disvelamento di una società civile che non è il Paradiso terrestre, giunta in una sua parte, senza mediazioni di alcun genere, direttamente al potere con i 5 Stelle, il propagandismo della Lega salviniana, in alcuni passaggi negatore dei valori liberal-democratici, hanno mostrato il volto di una crisi culturale e morale che non immaginavamo così profonda e pervasiva» (Il Regno - Attualità 04/2021, pp. 69-70).
A questo punto Mattarella ha messo in campo Mario Draghi. Il suo vorrebbe essere l’ennesimo governo di salvezza nazionale. Difficile dire come andrà. Che sia la dimostrazione più evidente della semplicissima e banale affermazione populista che chi governa fa solo i propri interessi, e per sopravvivere al potere si è disposti a qualsiasi compromesso politico? Che sia invece l’apertura di una fase nuova in cui i partiti sono costretti a ritrovare una propria identità ideale, in cui il PD per primo dovrà decidere cosa è, la Lega da che parte stare e il M5S come fare per sopravvivere elettoralmente?