Apri la porta, scarta la sorpresa

L’accoglienza dello straniero apre il nostro cuore all’incontro con Dio

 di Mirko Montaguti
frate conventuale, biblista

 L’ultimo capitolo della Lettera agli Ebrei, come spesso avviene negli scritti apostolici del Nuovo Testamento, è dedicato ad alcune esortazioni. Leggendole, noi lettori frettolosi spesso le sorvoliamo un po’ velocemente con la sensazione di déjà vu: «Ho già ascoltato mille volte questi richiami e questi consigli».

Amare i fratelli, stimarsi a vicenda, essere generosi e non attaccati al denaro, obbedire alle autorità costituite, rispettare il coniuge… Cose sapute e strasapute, ma che ci vengono ripetute con insistenza nella Scrittura, perché l’amore non può che essere sempre nuovo nella sua realizzazione pratica.
E soprattutto esso non è mai scontato. Un conto è sapere di dover amare i fratelli, tutt’altra cosa è inventare ogni giorno il modo di vivere il vangelo in modo coraggioso, nel mio qui e ora. Tra queste esortazioni, le quali non sono ordini che ci fanno sentire in trappola, ma piuttosto consigli che ci aprono ad una vita piena, la Lettera agli Ebrei colloca un’indicazione antica e nuova al tempo stesso: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli».

 Il rischio della contaminazione

L’ospitalità è un tema caro a tutta la Scrittura, profondamente radicato nel contesto culturale del Vicino Oriente Antico. Pensiamoci: i viaggiatori, le carovane, i nomadi erano anticamente i portatori di notizie, di cultura, di storie… e di sogni. Quando giungevano dei viaggiatori nel villaggio o nell’accampamento, con essi arrivavano anche notizie importanti (spostamenti di eserciti, pericoli incombenti, opportunità da cogliere) e storie affascinanti (scoperte recenti, tecniche innovative, poesie e canti). Accogliere un forestiero significava aprire una finestra sul mondo, scommettere che il proprio orizzonte ristretto non era l’unico modo di intendere il reale e, forse, nemmeno il migliore. Significava accogliere il rischio dell’incontro, del dialogo e del confronto.
Il termine usato dall’autore della Lettera agli Ebrei per indicare l’ospitalità è particolarmente suggestivo. Viene infatti usato il termine greco filoxenía, che nel suo significato etimologico significa “amore per lo straniero”. È in qualche modo il contrario della xenofobía, ovvero la “paura del forestiero”. L’apertura alla diversità, che lo straniero incarna, è sinonimo di disponibilità ad uscire da sé. In effetti, l’ospitalità e l’accoglienza non indicano soltanto dei servizi esteriori, come potrebbe essere preparare un letto, riservare un posto a tavola, offrire un tetto. L’ospitalità dice anche l’essere disposti a fare spazio nel proprio mondo e accettare che il mondo dell’altro condizioni un po’ il mio, desiderare che il mio tempo divenga anche (almeno in parte) tempo dell’altro. Insomma, si tratta di preferire alle sicurezze dei propri confini ben difesi il rischio della contaminazione e dell’osmosi.

 
 Una storia di forestieri

Il valore dell’ospitalità è radicato nel DNA stesso del popolo ebraico ed è al fondamento delle Scritture. Basti pensare al famoso “credo storico” di Dt 26 che condensa la fede giudaica narrata attraverso le opere di Dio: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa». L’Arameo errante è il nostro padre Abramo che uscito da Ur dei Caldei e giunto a Carran, viene invitato da Dio a farsi nuovamente forestiero verso una terra sconosciuta (cfr. Gen 12); così Isacco e Giacobbe, così Giuseppe che venduto in Egitto vi chiamò i suoi fratelli perché vi abitassero (cfr. Gen 45). Non solo la vita nomadica dei patriarchi, ma anche il soggiorno in terra straniera del popolo e il cammino in mezzo al deserto, tra prove e grandi sofferenze, sono esperienze forti incise nella propria carne, che non possono non invitare l’uomo biblico ad aprirsi al forestiero, al diverso, al nuovo.
Spesso Israele nella storia, rinnegando le proprie radici e anche il senso della propria elezione, si chiuse in se stesso, per paura di perdere la propria identità culturale e religiosa. Sappiamo bene però che non è chiudendosi che l’identità viene rafforzata; al massimo crescono i muri e gli steccati, ma l’umanità si spegne e gli ideali diventano solo dei baluardi vuoti ed impolverati. Perché gli ideali in cui crediamo restino vivi e fecondi, essi vanno confrontati, dibattuti, messi in questione. Non si tratta di sincretismo ma piuttosto di rafforzarsi nella propria identità confrontandosi con quella dell’altro e imparando ad accogliere senza annullarsi. Si tratta di un pericolo che corriamo così spesso, anche noi cristiani nelle nostre comunità ecclesiali!

 Angeli e ospiti

La Lettera agli Ebrei, però, nel suo invito sintetico, enumera una sola ragione all’opportunità dell’ospitalità. Si tratta di una ragione scritturistica: «Alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (13,2). È bellissimo questo riferimento lasciato intenzionalmente vago, perché ci induce a ricercare nella nostra memoria biblica casi in cui questo si realizzò. Così ci viene in mente anzitutto Abramo, che accolse presso la sua tenda tre uomini pellegrini (cfr. Gen 18) i quali si rivelarono poi essere latori di un messaggio importante da parte di Dio («fra un anno a questa data tua moglie avrà un figlio». L’accoglienza a loro poi riservata dal nipote di Abramo, nella città di Sodoma (cfr. Gen 19), fu anche causa dello scampare di Lot e della sua famiglia dalla pioggia di fuoco e zolfo. Possiamo poi pensare all’angelo Raffaele accolto dal padre di Tobia e al tanto bene che quell’incontro portò (cfr. Tb 5): la sua guarigione, il matrimonio del figlio Tobi, la liberazione di Sara dal demone.
Ma quello che è più importante è che l’accoglienza dei messaggeri di Dio avvenne “senza saperlo”. La visita di Dio avviene dunque in modo del tutto inaspettato, non previsto. Nemmeno si può legare l’accoglienza ad una aspettativa, ad un tornaconto, da parte di Dio o degli uomini. Essa non può prescindere dalla gratuità… Sono però l’apertura del cuore e la disponibilità al nuovo - proprio ciò che l’attitudine all’ospitalità coltiva dentro di noi - a dissodare il terreno e renderlo pronto per il passaggio sorprendente di Dio nella nostra vita… attraverso uno scambio di sguardi, un dialogo fecondo o l’incontro con la sofferenza di un fratello.