Maestra vita, insegnaci a perseverare

Alle insidie del peccato si risponde con la gioia del lasciarsi cambiare

 di Mirko Montaguti
frate conventuale di Longiano, biblista

 Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. «Errare è umano, ma perseverare è diabolico». Questo aforisma che affonda le sue origini nella classicità latina, è stato formulato per la prima volta in modo completo da S. Agostino.

Se il commettere sbagli è esperienza meramente umana, a causa della fragilità propria della nostra natura, lo stesso – attesta il santo – non può dirsi dell’ostinarsi nell’errore. Perseverare è definito addirittura “diabolico”, poiché la libertà viene utilizzata in modo stabile e costante per determinarsi verso il male.
Se volessimo girarla in positivo potremmo dire: «Fare cose buone è umano, perseverare nel bene è divino». E anche questo motto a prima vista ci sembra logico e coerente, visto che la nostra umana debolezza ci porta ad essere spesso incostanti e volubili. Sappiamo bene – poiché lo sperimentiamo ogni giorno – che il nostro mondo emotivo, per definizione sua, è altalenante e il rischio è quello di lasciarsi trascinare dal momento e di vivere così senza un orientamento definito, ma ondeggiando da una esperienza all’altra. La nostra società che con Zygmunt Bauman ci siamo abituati a chiamare “liquida” (come l’acqua che prende la forma del bicchiere in cui la metti), sempre di più ci spinge a vivere come banderuole, secondo una cultura del momentaneo, dove tendiamo ad assolutizzare gli istanti e sempre meno siamo in grado di orientarli.

 Una virtù fuori moda

Chi parla di stabilità e di solidità oramai è condannato ad essere tremendamente fuori moda! Eppure l’invito alla perseveranza è molto diffuso nel Nuovo Testamento. Poco sopra, abbiamo definito la perseveranza nel bene come una qualità propria del “divino”, e certamente lo è se pensiamo all’invitta fedeltà di Dio all’alleanza nonostante i reiterati tradimenti del popolo, oppure alla determinazione di Gesù Cristo che non fugge davanti alla sua missione anche quando questa diventa pesantissima da sostenere (cfr. Eb 12,3). Ma dire che la perseveranza è “divina” non deve indurci a considerarla come fuori dalla nostra portata; piuttosto essa va invocata da Dio come grazia e perseguita attivamente, come chiedono insistentemente le lettere apostoliche del Nuovo Testamento.
Il termine greco che siamo soliti tradurre con “perseveranza” è hypomoné che, nel suo significato letterale, indica l’azione del rimanere fermi (questo il significato del verbo meno), sottoposti (hypo = sotto) a qualcosa. Il riferimento è dunque al rimanere e resistere in circostanze avverse, al sopportare e tollerare situazioni difficilmente sostenibili; in questo termine c’è anche la sfumatura dell’attesa: rimanere di fronte al tempo che passa, pazientare nella certezza del ritorno di Cristo.

 Quotidianità è difficoltà

Insomma, il perseverare si esprime in atteggiamenti di resistenza: resistenza al male, alla tentazione, allo scoraggiamento, alla persecuzione. L’autore della Lettera agli Ebrei lo chiede alla comunità a cui sta scrivendo, sulla base del fatto che tale comunità, «dopo aver ricevuto la luce di Cristo», aveva già attraversato un periodo di grave lotta e tribolazione. In quell’occasione, osteggiati e perseguitati, erano stati in grado di non soccombere, animati dalla speranza (cfr. 10,32-34). Sembra che ora, invece, tale resistenza venga meno: «Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di perseveranza» (10,35-36).
La prova affrontata e superata forse fu addirittura la persecuzione violenta (si parla di “sangue” e di “carcere”) di fronte alla quale i fratelli della comunità non erano fuggiti e non si erano lasciati prendere dallo sconforto e dalla remissività. E adesso, perché al resistere (al “rimanere sotto” il peso delle contrarietà) si contrappone il “cedere” (cfr. 10,38-39)? Proprio ora che la prova sembra assumere toni meno violenti e la lotta non si gioca più contro l’ostilità di nemici in carne ed ossa, ma contro il peccato (cfr. 12,1-4)?
Di sicuro la lotta contro il proprio io, sebbene si giochi su un terreno meno periglioso, è più insidiosa di quella contro gli avversari. Essa tende a raffreddarsi e il conflitto con la tentazione spesso viene dissimulato. Esso si presta meno ad atti di eroismo e di grande virtù affermati a spot in momenti di entusiasmo, ma richiede una fedeltà quotidiana e grigia che alla lunga può diventare insostenibile.
«Non avete resistito ancora fino al sangue nella lotta contro il peccato». Il problema spesso è proprio questo: nella lotta contro il peccato non ci sembra di dover giungere al sangue, ma ci accontentiamo di fermarci prima, in quella zona “franca” in cui non siamo radicalmente evangelici, ma riusciamo ancora a tenere a bada i sensi di colpa e a salvaguardare una buona immagine di noi stessi.

 Resilienti nella correzione

Nelle lotte che non si esauriscono, ma in cui occorre sempre tenere alta la guardia e non assopirsi per non essere colti di sorpresa (come è proprio della lotta contro il peccato), la resistenza ferma e granitica difficilmente è possibile. Abitudine, stanchezza, logorio mettono a dura prova la nostra forza di volontà che non sempre è in grado di “resistere”.
La psicologia attuale parla spesso di resilienza, riferendosi alla capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, riorganizzando positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. Sono persone resilienti quelle che, in circostanze avverse, riescono nonostante tutto a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria vita.
Si tratta di un tipo particolare di “perseveranza” nella quale alla resistenza si affianca la disponibilità a mettersi in gioco, a cambiare abitudini, a non istallarsi nei propri schemi comportamentali. È una resistenza matura perché implica anche la disponibilità a crescere. Anzi, proprio le contrarietà e le avversità diventano gli elementi che ci inducono a trovare la forza per crescere.
Credo che sia proprio questo tipo di perseveranza quello a cui la Lettera agli Ebrei si riferisce. Infatti non si dà perseveranza senza disponibilità alla correzione: «È per la vostra correzione che voi soffrite» (12,7). Accettare di essere educati e “corretti” dalla vita: questo non soltanto ci renderà forti, ma anche e soprattutto gioiosi nella rettitudine. «Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire» (12,12-13).