Basterebbe un amico

«Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5)

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

 Una resa in pace

«Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» non è probabilmente la traduzione migliore del testo ebraico di Gb 42,5.

Tuttavia, si è affermata e viene riproposta in quasi tutte le versioni, perché intriga i lettori del libro di Giobbe di ogni tempo e rende senz’altro fedelmente ciò che il testo originale vuole trasmettere.
Con quelle parole Giobbe si arrende a Dio. Però, non è una resa passiva e mortificante, ma la manifestazione di una pacificazione interiore a lungo cercata e finalmente raggiunta. Anzitutto, c’è la consapevolezza di un incontro con Dio che ha spazzato via tutta una serie di pregiudizi che avevano incrinato la relazione di amicizia tra Giobbe e Dio. Quell’amicizia che all’inizio del libro viene ricordata per ben tre volte con le stesse identiche parole, a ribadire la ferma convinzione che proprio su di essa era basata la felicità di Giobbe «integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male» (Gb 1,1; 1,8; 2,3).
La trama del libro aveva mostrato però che sia Giobbe che gli altri interlocutori umani avevano frainteso il legame tra la retta relazione di Giobbe con Dio e la sua felicità. I tre sapienti orientali che erano venuti a visitare Giobbe in maniera sfacciata avevano legato in una equazione di causa ed effetto la rettitudine del comportamento umano con il premio della felicità da parte di Dio. Per cui, se Giobbe aveva perduto la sua condizione felice, il motivo era da ricercarsi necessariamente nella sua condotta peccaminosa. Il giudizio iniziale sulla sua giustizia o non corrispondeva alla realtà oppure Giobbe non aveva perseverato.

 Dio sul banco degli imputati

Anche se Giobbe non condivideva quel tipo di ragionamento, tuttavia pure lui ne seguiva la logica: se su di lui si era abbattuta la sciagura, ci doveva essere un colpevole. Per gli amici il colpevole era lui, per Giobbe il colpevole era Dio: «È poi vero che io abbia sbagliato e che persista nel mio errore? ... Sappiate dunque che Dio mi ha schiacciato e mi ha avvolto nella sua rete ... Mi ha sbarrato la strada perché io non passi e sui miei sentieri ha disteso le tenebre. Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha distrutto da ogni parte e io sparisco, ha strappato, come un albero, la mia speranza. Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico» (Gb 19,4.6.8-11).
«Mi considera come suo nemico», la rottura completa dell’amicizia, è ciò che maggiormente angoscia Giobbe. E tuttavia non riesce a uscire dalla logica del do ut des. Non riesce a concepire una relazione basata sulla gratuità, che sia rispettosa della libertà di entrambi i partner. Quando Dio scenderà per confrontarsi con lui, reclamerà anzitutto questa libertà e aiuterà Giobbe a comprendere che lui continua ad essere suo amico nonostante la sciagura, la sofferenza, la malattia. E Giobbe si sentirà sollevato, riscoprirà il Dio amico in una luce completamente diversa.
Quando Giobbe viveva la felicità e l’amicizia di Dio come premio della propria rettitudine, era amato e stimato in famiglia, nel clan e in tutto l’ambiente che lo circondava. Ed era talmente convinto che comportarsi bene e tenersi lontani da una condotta peccaminosa erano indispensabili per una buona riuscita nella vita che si preoccupava che anche i suoi figli facessero altrettanto. Anzi, suppliva lui stesso alla purificazione dai loro eventuali peccati. L’inizio della vicenda di Giobbe è una presentazione oleografica della corrispondenza perfetta tra comportamento giusto e felicità. E in genere si pensa che le cose stiano proprio così. In realtà, il messaggio centrale del libro vuole contestare esattamente questa religiosità ingenua. E lo fa mostrando che in questo genere di religiosità a farne le spese sono le relazioni con Dio e con gli altri.
Infatti, man mano che Giobbe è colpito dalla sciagura, tutti lo abbandonano, dalla moglie ai parenti agli amici e a tutti quelli che prima lo stimavano. E la causa di questo generale abbandono risiede in una falsa religiosità: con la pretesa di difendere Dio dalle accuse di Giobbe, si colpevolizza l’amico e non ci si fa scrupoli a rompere ogni rapporto con lui. Giobbe prova a porre la questione fondamentale, che cioè l’amico deve stare sempre accanto all’amico che soffre, anche quando questi ha dubbi di fede o si rivolta contro Dio (Gb 6,14). Ma gli amici non seguono questa logica, che nel messaggio del libro è centrale: seguendola si rinsaldano le relazioni con gli altri e con Dio. Dio si mostrerà sintonizzato su questa logica quando alla fine rimprovererà gli amici di non aver detto di lui cose rette come invece ha fatto Giobbe. Che in fondo è come dire che ha fatto meglio Giobbe a non essere troppo preoccupato della rettitudine dottrinale, ma piuttosto a cercare con tutte le sue energie a riannodare la relazione con Dio che vedeva infranta.

L’amicizia da riannodare

Quando Giobbe alla fine dirà: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto», esprimerà la consapevolezza di aver ritrovato l’amico perduto. Oppure, ancora meglio, di aver trovato il vero amico. L’amico che gli resta accanto anche se vacilla nella fede, anche se pone questioni provocatorie, anche se impreca. Dio non lo giudica, non lo colpevolizza, non lo abbandona. Gli chiede solo di accoglierlo come amico che a sua volta non vuole essere giudicato, colpevolizzato, abbandonato.
Giobbe si rende conto che Dio è andato molto al di là delle sue aspettative. Voleva un confronto con Dio per poter dimostrare la propria innocenza. Ma si sentiva impotente a raggiungere Dio. È allora Dio che viene a lui. Viene sulla cenere, dove sta Giobbe. Non risponde alle domande di Giobbe, ma prende per mano Giobbe per fargli comprendere che ci sono cose che non si possono spiegare, che appartengono al mistero dell’esistenza.