Il pellegrinaggio nasce con un carattere “penitenziale”, nei primi secoli dell’era cristiana. «Faceva parte del processo di conversione: per liberarsi dalle ansie e dalle tensioni del mondo si partiva verso Roma oppure Gerusalemme, dove si viveva da “stranieri”, da “esuli” (secondo l’etimologia del termine “pellegrino” [da per ager, andare per campi ndr])» (Wikipedia). A chi è recluso è interdetta proprio la libertà di movimento. In carcere si cammina per ore e ore, chilometri e chilometri, nel perimetro di aree grige. Il pellegrinaggio interiore e penitenziale, invece, ci è addirittura richiesto. È la nostra condizione: viviamo da “stranieri” e da “esuli” in questo luogo che non ci appartiene e al quale non apparteniamo, senza altra meta che non sia noi stessi.
a cura della Redazione di “Ne vale la pena”
Alla ricerca della meta
Soli e pensosi noi qui stiamo!
DIETRO LE SBARRE
Meglio soli
Oltre alla privazione della libertà, ciò che rende così tormentoso il carcere è la convivenza forzata con le altre persone recluse, che fino al giorno prima non si conoscevano nemmeno.
Se con il concellino (compagno di cella) si va d’accordo il problema sono le altre persone della sezione. In ogni reparto detentivo, in poche centinaia di metri quadrati, vivono cinquanta persone, alcune anche violente. Si litiga per una partita di carte, per un piatto di pasta o una mela, per il telecomando della televisione oppure per una parola fuori posto. Insomma è impensabile trascorrere in maniera serena la propria pena. Anche se non li cerchi, i problemi qui dentro ti cercano.Qui ci sono cittadini che hanno commesso un reato che ha cambiato la loro vita, ma anche delinquenti abituali che hanno capito che il crimine non porta da nessuna parte. Vi sono anche molti giovani che necessitano di essere aiutati dal momento che hanno difficoltà ad adattarsi in contesti simili, perciò hanno bisogno di punti di riferimento positivi. Quando entri per la prima volta sei spaventato dalla realtà carceraria, ma, dopo poco tempo, i più vengono manipolati dal circolo vizioso del sistema detentivo. Il carcere può diventare, soprattutto per loro, un’università del crimine. Si entra per reati minori e si esce esperti in rapine e traffico di droga. Per sopravvivere, i giovani sono costretti a diventare come i loro compagni, non farlo significherebbe mostrarsi deboli, attirando su di sé prepotenze e soprusi.
Anche gli anziani e i più miti di carattere vengono di solito molestati. Non sono pochi i casi in cui alcuni diventano oggetto di bullismo. Dietro a queste sbarre di ferro arrugginito succede spesso di ritrovarsi in situazioni spiacevoli: risse e problematiche di qualsiasi genere mettono a repentaglio l’incolumità e la serenità giornaliera. Trovarsi coinvolti in queste storie può significare ulteriori anni di carcere da espiare. Alcuni detenuti sono entrati per scontare uno o due anni, ma ne hanno accumulato una decina per reati commessi dopo la carcerazione. Si viene condannati ulteriormente per possesso di droga o per le aggressioni nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria o dei propri compagni. Come se non bastasse, dal 2021 è diventata reato anche l’introduzione illegale di cellulari in carcere, con una pena che va da uno a quattro anni di reclusione.
Tutte queste infrazioni alla legge all’interno di un istituto comportano anche la perdita della liberazione anticipata, ossia la detrazione di pena che viene riconosciuta a chi mantiene una buona condotta. E quindi più carcere da espiare. Cosa fare dunque? Una delle soluzioni che molti adottano per sopravvivere è quella di interrompere il più possibile le relazioni con il resto del reparto. Il metodo più efficace per scontare in pace la propria pena è la limitazione dei contatti interpersonali con il resto dei reclusi. Le relazioni avvengono, ovviamente, soltanto con il/i compagno/i di cella e con pochissimi altri compagni di reparto. E così il tempo in cella trascorre con la lettura di libri, con le riflessioni sul reato commesso, nella preparazione di qualche piatto da mangiare e nella visione della tv. Si esce dalla sezione e si sta in gruppo solo per andare a scuola o nei vari laboratori culturali che vengono proposti in istituto.
Questo isolamento autoimposto è un modo per evitare guai, ma diventa anche uno strumento molto importante per riflettere sul proprio passato e sul proprio futuro. Diversamente, la vita ordinaria detentiva non te lo consente. Ed è facile, senza coltivare momenti di silenzio e di dialogo con sé stessi, vivere in carcere più da vittime che da colpevoli.
Solitudine, silenzio, serenità interiore, riflessione: queste sono le tappe del pellegrinaggio che cerco di percorrere giorno per giorno, nel cammino verso una nuova vita.
Igli Meta
Espiare dentro
Nel mondo carcerario l’immobilità è la principale delle costrizioni imposte ai detenuti. Ogni spostamento, anche piccolo ed interno al carcere, è considerato un potenziale rischio. L’intera detenzione può essere paragonata ad un lungo e faticoso pellegrinaggio espiatorio. I pellegrinaggi nell’Alto Medioevo erano generalmente riservati a chi si era macchiato di qualche grave reato e veniva condannato a vagabondare, solo e impoverito, per terre sconosciute e pericolose, spesso con le catene a polsi e caviglie, anche come segno di riconoscimento e di stigma per i cosiddetti benpensanti.
Quella di allora è una condizione drammaticamente simile a quella di un’attuale detenzione, durante la quale si viene spostati da un carcere all’altro ammanettati e scortati da una pletora di agenti, nella maggior parte dei casi tanto inutile quanto costosa. Nei “pellegrinaggi” detentivi di oggi si rinvengono le stesse differenze di regolamenti e modus operandi. Come le norme e i principi delle Città Stato, mete intermedie imprescindibili dei pellegrini del medioevo, anche le regole imposte dalle direzioni di ciascun carcere possono essere in totale contraddizione tra loro. E tutto ciò vale anche per il trattamento ed i diritti faticosamente acquisiti dal detenuto nei precedenti istituti. Avere un lavoro, l’accesso al computer, una telefonata in più, la possibilità di acquistare un determinato bene al sopravvitto, vengono inesorabilmente perduti all’arrivo nel nuovo carcere.
Questa assurdità giuridica, che viola il principio del diritto acquisito (immutabile, una volta entrato nella sfera giuridica di un soggetto), deve la sua attuazione non alla volontà delle direzioni, ma alla politica. E l’istituzione formalizzata per stabilire l’accesso ai benefici e i diritti di chi sta in carcere, la Magistratura di sorveglianza, è l’ambito dove la discrezionalità supera anche quella dei ducati medioevali. Non solo, il tempo di risposta alle legittime domande inviate dai detenuti può essere esteso oltre il limite del buon senso (drammaticamente significative le risposte a due domande di partecipare al funerale di un parente, giunte mesi dopo la richiesta). Due persone hanno compiuto lo stesso reato e hanno seguito lo stesso percorso riabilitativo, assegnate a diversi magistrati di sorveglianza, possono accedere ai benefici in tempi totalmente differenti. Non solo: uno può trovarsi libero in permesso premio, potendo cercare lavoro, magari insieme ai suoi familiari, mentre l’altro può ritrovarsi in una cella sovrappopolata ad oziare rabbiosamente.
Il risultato è espresso dai dati ministeriali, i quali ricordano che: «La recidiva da parte di coloro che hanno espiato la loro pena interamente in cella è del 70%, mentre la recidiva di chi ha avuto accesso a misure alternative è del 20%». E l’altra istituzione creata per gestire il mondo carcerario, il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) pensa più ai propri interessi che a quelli dei suoi ristretti. Degli oltre tre miliardi e duecento milioni che il sistema carcerario costa alla comunità, il 68% è destinato agli agenti, poco più del 15% al mantenimento dei detenuti, appena il 2% alle attività di educatori e criminologi, cui si aggiungono volontari e cappellani.
Nel mondo di dentro il cammino può essere simboleggiato dalla faticosa presa di coscienza dei propri errori. Un pellegrinaggio interiore che ci deve ricordare che la vita continua, che ne vale la pena viverla e che la carcerazione può rappresentare un’occasione per ricostruirsi e trovare le giuste scelte e battaglie da intraprendere, per intervenire sulla realtà. Quotidiana e futura.
Giulio Lolli