«Il carcere – quello italiano – è una grande bugia, che ci raccontano per farci credere che facendo soffrire chi ha fatto soffrire se ne otterrà una persona migliore. La giustizia seppellisce la Giustizia, e la verità processuale seppellisce la verità. Il carcere tenta di seppellire anche la carità, ma, per fortuna, in questo caso, è come seppellire viva una talpa...

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Il grande inganno

Le sbarre e il tribunale dalle gambe corte

 DIETRO LE SBARRE 

Il carcere è finzione

Il carcere è fondato su una grande finzione, e per questo è difficile, qui, trovare la verità, sia fuori che dentro di noi; tanto più è difficile trovare, qui, quella verità che orienta alla carità ed ai valori autenticamente umani.

Il carcere non nasce con l’uomo, non nasce con la società, neanche con l’organizzazione dello stato: non è ad essi, in alcun modo, connaturato; nasce appena poco più di trecento anni fa come forma afflittiva sostitutiva di pregresse pratiche sanzionatorie considerate superate e barbare come la tortura, lo squartamento, i ferri roventi e il patibolo. Il carcere è, pertanto, un’esperienza sociale tutto sommato recente.
Ma allora, perché si continua ad avere del carcere, più di ogni altra istituzione, una cognizione di deterministica presenza, di persistente necessità, di irrinunciabilità? La carriera fallimentare dell’istituzione carcere, sia in termini di riuscita risocializzazione del reo e di ristoro del danno alla vittima, sia, soprattutto, di riduzione o attenuazione del fenomeno criminoso e della recidiva, non avrebbe dovuto portare, come spesso avviene in tutti i casi di insuccesso sociale e politico, a una pubblica e celere messa in discussione dell'intero sistema? La “prigionizzazione” produce effetti opposti alle sbandierate finalità riabilitative. Il carcere, nonostante i principi e le buone intenzioni, rischia di configurarsi come un ostacolo al reinserimento sociale: l’apparente effetto riabilitante della vita carceraria quando si realizza avviene di fatto a dispetto delle influenze dannose della cultura carceraria.
Le conclusioni continuano ad essere disperanti: rieducazione e riabilitazione sono vuote formule retoriche ed il massimo che possiamo attenderci da un percorso trattamentale è di contrastare le influenze deleterie della “prigionizzazione”. È un problema di impostazione, di metodo. Le scelte regolamentari poste a fondamento della gestione della pena fanno trasparire un dato fin troppo chiaro: al detenuto, in carcere, non è richiesta, di fatto, la produzione di alcun risultato o comportamento concreto che provi il ravvedimento. Tutto rimane teorico. E inefficace.
La pena carceraria è e resta, sostanzialmente, un’obbligazione di mezzo. Questo significa che al detenuto, durante la sua detenzione in carcere, corre un solo obbligo: assicurare, col proprio comportamento intramurario, l’adesione a un percorso preconfezionato che si sostanzia prevalentemente in un rapporto dialettico (detenuto/area educativa oppure detenuto/sorveglianza) osservato il quale (cosa che, in termini di diritto penitenziario, equivale a dire semplicemente: non aver subito rapporti disciplinari o aver dato inequivocabili segni di ravvedimento) viene prospettato nei suoi confronti un giudizio prognostico positivo che non ha basi empiriche, ma solo negoziali. La prova, se mai può esistere una prova certa, di un mutamento interiore in positivo, della modifica di scelte comportamentali future e, soprattutto, di un’avvenuta maturazione della consapevolezza del disvalore dell’azione commessa, non trova dentro il carcere strumenti idonei di verifica atti a individuarla, né a concretizzarla. Educatori, magistrati, direttori non vogliono sentirselo dire, ma il detenuto, quasi sempre, finge. Finge da quando entra a quando esce. Finge il ravvedimento, il comportamento. Finge! Finge perché vuole uscire. E anche i rapporti all’interno delle sezioni detentive sono poco autentici. Si frequenta un gruppo sociale provvisorio, congelato, verso il quale non si ha nessuna responsabilità, al quale si può offrire la migliore maschera di se stessi. Quelli fra i più deboli vedono, addirittura, nella carcerazione una possibilità per essere finalmente qualcuno. In carcere si può millantare, si può essere un’altra persona, le interazioni sociali sono così artificiose e falsate che ci si può reinventare dal nulla una vita o un passato “glorioso”.
Per concludere, se si osserva un delinquente chiuso in carcere si ha proprio l’impressione che stia cambiando. In meglio. È calmo, tranquillo, meditativo. È finalmente diventato un detenuto modello. Non un uomo modello! Nulla a che fare con la verità!

Fabrizio Pomes

 La verità processuale

In carcere tutti ci confrontiamo con la “verità processuale” che ci ha portato qui, a scontare la nostra pena. Capita di sentire persone che si professano innocenti, oppure di conoscere storie di detenuti che vengono giudicati colpevoli per poi essere successivamente scagionati in appello in quanto il fatto che viene loro contestato in primo grado risulta non sussistente. Ma allora di quale verità stiamo parlando?
In un processo il giudice deve amministrare la giustizia, ossia deve far emergere la verità “processuale” su come realmente ed oggettivamente si sono svolti i fatti. Si può ben capire che sia un lavoro più che arduo. Infatti, proprio per questo, fare il magistrato richiede molta responsabilità e professionalità anche se in alcuni processi purtroppo questi requisiti vengono a mancare.
Capire e dimostrare cosa veramente sia accaduto in un caso in cui ci sono parti (accusa e difesa) che si attaccano a vicenda, richiede tantissime prove: le dichiarazioni degli imputati, l’escussione di testimoni, i documenti, le video-registrazioni, le intercettazioni ecc. Tutto questo potrebbe però non bastare.
In tante situazioni il giudice, essendo un essere umano e non disponendo della sfera di cristallo, si limita a dare un giudizio in base agli elementi probatori di cui dispone. E per questo può accadere che i giudizi siano basati su una verità limitata e, a volte, che un innocente venga condannato.
Gli errori giudiziari commessi in Italia da parte della magistratura ammontano a circa 30.000 casi negli ultimi 30 anni, ed è un numero inaccettabile per un Paese come il nostro. Il codice penale afferma che si deve giudicare «al di là di ogni ragionevole dubbio», ma quando il quadro è incerto cosa dovrebbe fare un magistrato? «In dubio pro reo» dicevano i romani, cioè nel dubbio bisogna giudicare in favore dell’imputato. Questa massima è stata adottata anche dal diritto vigente italiano.
Sorge spontanea una domanda: come può una corte affermare la colpevolezza di un cittadino e un’altra dichiarare l’opposto affermando la sua innocenza?
La risposta forse si può trovare nel celebre libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria: «Il giudice non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto». Oppure, perché convinto da deduzioni personali o perché influenzato da processi mediatici e dall’opinione pubblica, decide di tenere in considerazione altri elementi, venendo meno così al dettato costituzionale che afferma che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Possiamo quindi affermare che la giustizia umana non sarà mai esente da errori e, soprattutto, non sarà mai verità assoluta.

Emme. I