La politica? No grazie. Poi le prime raffiche, gelide e rabbiose, a partire da Maria Rosaria: «Solo tutto un magna magna» e Giuseppe: «Un mondo di corrotti, certo ci sono persone oneste al Governo, ma come una sola noce in un sacco. La maggioranza pensa solo ai propri agi e se ne strafrega della gente bisognosa»; per non dire di Gabriele: «Politica e religione nemiche della ragione! Politici, sindacalisti, prelati, utili strumenti dei poteri occulti, veri padroni del mondo».

a cura della Caritas Diocesana di Bologna 

Bene comune, mon amour

Il sogno, la distanza, l’impegno

IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE

Cerco di prendere le distanze per non lasciarmi travolgere e mi chiedo se è proprio tutto così, senza appello, e ricordo il mio arrivo al Centro di Ascolto nel 1993, un mondo totalmente sconosciuto!

E scoprii la FIOpsd (Federazione Italiana Organismi per le persone senza dimora), costituita da soci dell’area del Privato Sociale e del Pubblico che, a diverso titolo, si occupavano di emarginazione grave, e di cui, per molti anni, ha fatto parte anche la Caritas di Bologna. Lo scopo era squisitamente politico: far emergere una realtà invisibile ai più, sensibilizzare in merito e promuovere il riconoscimento dei diritti delle persone senza dimora. Da allora di strada se ne è fatta tanta, e tanti i risultati ottenuti.

 Guelfi, ghibellini e Lakota Sioux

Si può fare buona politica? Sì, e anche Maria Rosaria, dopo averci pensato un po’, aggiunge: «A Bologna, però, mi avete salvato la vita, il Comune, l’ASL, con la dott.ssa Corsino, e la Caritas con Maurizio», ci tiene sempre molto a ricordare i nomi, «tutti insieme mi avete salvato la vita, perché Bologna accoglie tutti». Questo richiamo al bel tempo andato sollecita i ricordi di Leone: «Il mio paese era diviso tra guelfi e ghibellini, don Camillo e Peppone: al mio gruppetto non piacevano né l’uno né l’altro perché, sia pure con maglie diverse, rappresentavano la stessa cosa, voto di scambio e clientelismo. Così, come un’Armata Brancaleone, ci schieravamo con il partito più debole, ma con più entusiasmo e più voglia di cambiare, che in quegli anni, in Sicilia, era La Rete di Leoluca Orlando. Dal ’93 al 2000, ogni tornata elettorale noi eravamo lì, a battibeccare con i figli di papà. Diventava il mio mese o due di lavoro continuativo, e remunerativo, visto che andavo in giro con il furgone propagandistico, stavo in segreteria a rispondere al telefono, volantinavo nei mercati… ma la cosa più bella era attaccare i manifesti di notte, fuori dagli spazi assegnati, e, come nel film I due deputati, aspettare che l’altra fazione attaccasse il suo e subito coprirglielo. Quanti ricordi e quante risate, peccato poi sia tutto finito, proprio come nella canzone di Gino Paoli Eravamo quattro amici al bar».
«A modo mio anch’io ho fatto politica», interviene Daniele, «erano gli anni Novanta, lavoravo presso l’Istituto di Archeologia che ha un’enorme biblioteca dove mi immergevo nell’antica Grecia: filosofi, artisti ed eroi colmavano il mio immaginario. Poi Incas, Aztechi, Maya, fino ad approdare agli indiani d’America. Mi appassionai al punto da sposare la loro causa: la difesa di una montagna sacra, Mato Paha, dove sono sepolti centinaia di nativi morti nelle guerre contro l’uomo bianco che li spodestava dalle loro terre, massacrandoli e rinchiudendoli nelle riserve. Armato di carta e penna cominciai a raccogliere firme in loro favore, sentivo di vivere in modo serio una cosa seria, per un popolo privato di tutti quei diritti che oggi sono sanciti dalla Convenzione di Ginevra. Riuscii a raccogliere un consenso tale che contribuì a che gli Indiani Lakota Sioux venissero in Italia, a Firenze, per sostenere i loro diritti. Per me fare politica significa dare per il piacere di dare, come gli alberi e le sorgenti che danno ossigeno e acqua senza chiedere nulla».

 Azadeh e Afaf

Dopo questa escursione nel leggendario West, torniamo in Italia dove, tra quelli che più si sentono in balia della politica, ci sono sicuramente gli stranieri come Saadia che è qui da ventidue anni, ma lavorando part time, il suo reddito non è sufficiente per avere il Permesso di Soggiorno Indeterminato e così deve pagarne il rinnovo ogni anno, a volte anche ogni sei mesi, e ciò, solo per dirne una, non le consente di fare la domanda per la casa del Comune, cui pure avrebbe diritto, essendo madre sola con due figli minori che, pur se nati in questo Paese, fino a diciotto anni sono considerati stranieri. Tutto questo è politica, «politica malata», rincara Azadeh, «io ho due lauree in Italia e una in Iran, ma non ho un lavoro, porto le pizze e faccio la badante, quando capita. Nessuno affitta casa a noi stranieri, anche se possiamo pagare, per avere il Permesso di Soggiorno dobbiamo aspettare dieci mesi e, quando arriva, scade due mesi dopo… ma al mio Paese è anche peggio».
Concorda Afaf che, con lo sguardo nel vuoto, ripercorre i suoi quindici anni in Italia: un discreto inizio, lavoro, casa, ma poi, con la crisi del 2008, sia lei sia il marito hanno perso il lavoro e, poco dopo, anche la casa: «Con due bimbe piccole cosa dovevamo fare? Con altre famiglie, messe come noi, abbiamo occupato un edificio vuoto, illegale certo, ma l’alternativa era la strada. Addirittura a mio marito, per mancanza di reddito, fu consegnato un Foglio di Via, e io, incinta e con due bimbe, cosa avrei fatto? Abbiamo dovuto rivolgerci a un avvocato per difendere il nostro diritto di essere famiglia! Il giorno dello sgombero, dicembre 2016, prima ci tolsero l’acqua e poi ci costrinsero a uscire, c’erano dei ragazzi che cercavano di opporsi e li hanno picchiati, hanno picchiato le ragazze e anche una signora di ottant’anni… io ero incinta di 8 mesi, ci misero in albergo e poi in un alloggio di emergenza per due anni. L’assistente sociale ci ossessionava perché ce ne andassimo, anche lontano da Bologna, mi faceva i conti in tasca, pure se prendevo un gelato alle bimbe, poi finalmente è cambiata e il nuovo assistente, invece, ha fatto tutto il possibile e adesso abitiamo una casa del Comune, grande e bella, e lavoriamo entrambi. Sulla nostra pelle abbiamo vissuto le contraddizioni della politica, ma ho visto che non sono solo le leggi che possono creare problemi e ingiustizie, ma anche chi le applica, io non credo che in Italia ci sia una legge che dice di picchiare una donna di ottanta anni!».

 Mi ritorni in mente

«Non esiste forma di governo valida: ricadiamo costantemente nei nostri errori». Dopo la folata gelida di Gabriele, la voce di Maurizio arriva pacata e nostalgica: «Certo che di regnanti saggi come il re Salomone ce ne sono pochi. Se penso alla nascita della Democrazia, me la immagino come un innamoramento, una passione, e, quando siamo innamorati, cerchiamo di essere migliori e desideriamo solo il bene per chi amiamo. Perché non potrebbe essere così per la politica? Innamorati del bene comune, della propria Città, del proprio Paese? Allora forse non si lascerebbe mai un cittadino senza casa, senza lavoro, senza una vita dignitosa. Soltanto chi dimostra di essere profondamente innamorato della propria gente, e del proprio ambito di competenza, dovrebbe amministrare la Cosa Pubblica». «Beata ingenuità», sibila Gabriele trattenendosi a stento. Ma a me viene in mente Giorgio La Pira…