La politica non è tutto (molti lo pensavano nel secolo scorso). Ma tutto è politica. Non c’è scelta o azione che non abbia risvolti sulla società. L’azione politica vuole costruire la convivenza pacifica di uomini e donne liberi. Sembra paradossale parlare di carcere come luogo eminentemente politico. Lo è, perché rivela le modalità che una società sceglie per confrontarsi con chi si sottrae al patto di convivenza pacifica e la ferisce. Politica è cercare il bene comune anche nel confronto con il male.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

Venghino elettori venghino

Il tornasole della politica è il carcere

 DIETRO LE SBARRE

Dall’oblò a sbarre

La politica vista dall’interno di un carcere è come quell’astronauta che, affacciandosi dall’oblò della sua navicella spaziale, cercasse di capire quale tipo di verdura stia comprando al mercato la sua vicina di casa.

Impossibile! Altrettanto arduo sarebbe, per un detenuto, comprendere ciò che accade nella politica italiana, soprattutto per quanto concerne la politica penitenziaria, sempre ammesso che esista. Sì, la sensazione di noi “interni” è quella di una classe dirigente, governativa o meno, che per la situazione carceraria, salvo lodevoli eccezioni, non coltivi particolare interesse. Questo nonostante i reiterati richiami dell’Europa, gli esborsi milionari pagati per essere incorsi in ripetute violazioni che riguardano l’intero pianeta giustizia e non solo la condizione miserevole degli istituti penitenziari e dei suoi “ospiti”.
Si dirà che la situazione pandemica pone oggi altre emergenze che si sono aggiunte a una condizione del paese già “pandemica” di suo. Tragicamente vero, se non fosse che l’ultima riforma penitenziaria complessiva, peraltro mai applicata pienamente, risale all’ormai lontano 1975! Ma allora, per l’appunto, il clima politico era d’altro tipo e la classe dirigente di ben altro spessore. Un’altra tappa importante fu segnata dalla legge Gozzini, che nel 1986 introdusse un sistema organico di misure alternative alla detenzione. Anche in questo caso i buoni principi hanno visto nei decenni un’applicazione alquanto limitata e deludente.
Recentemente il più serio tentativo di riforma fu quello attuato dal Ministro della Giustizia Orlando (governo Renzi) che affrontava tutta la materia penitenziaria, ma naufragò per le convulsioni preelettorali e il relativo timore di perdere voti. Mesi di lavoro andati in fumo sul banco ortofrutticolo del mercato elettorale: si sa, chi mette mano al sistema carcerario rischia. E poco importa se migliaia di persone (persone!) passano anni di detenzione senza alcun costrutto, tant’è che la recidiva è oltre il 70% rispetto al 10/15% delle nazioni che hanno impostato diversamente «lo stare in galera». Importa ancor meno se le parole di cui tutti si riempiono la bocca (rieducazione, riabilitazione, risocializzazione, pur presenti nella Costituzione «più bella del mondo») suonano sempre più vuote di contenuto. Già, perché chi scrisse la Costituzione aveva il passato del ventennio fascista sulla schiena e molti, in galera o al confino, c’erano stati e ben sapevano cosa volesse dire guardare il soffitto senza tempo. E così, anche noi, oggi, come quell’astronauta, guardiamo dal nostro oblò fatto di grate e sbarre, senza alcuna speranza che qualcosa cambi e con la sola visione di una politica che ci guarda da uno spazio siderale mentre cerca di capire a quale mercato rivolgersi per non perdere le prossime elezioni.

Sergio Ucciero

 Politica e carcere

La Politica, quella con la P maiuscola, è impegno sociale volto a dare risposte ai bisogni dei cittadini. Ciò implica confronto di idee e competenza nell’affrontare le problematiche da cui il Paese è afflitto. Ma oggi questo assunto sembra per lo più negato. Una classe dirigente di basso profilo ha sostituito la riflessione meditata sulle scelte con il condizionamento dei sondaggi giornalieri, naviga a vista senza una prospettiva di futuro per le nuove generazioni. Ciò ha prodotto uno scollamento tra fa società civile e la politica e la caduta delle motivazioni valoriali. Per il cittadino, oggi, è veramente difficile orientarsi tra ciò che è di sinistra o di destra, tra il conservatore e il progressista, tra il riformista e il rivoluzionario. E allora prevale la logica del disimpegno, considerando indistintamente incapaci coloro che sono stati eletti per tutelare e sviluppare il bene comune.
Questa sfiducia è diffusa anche fra le persone detenute. Forse i più, prima della carcerazione, ignoravano anche chi fosse il Presidente della Repubblica o il Presidente del Consiglio. Dietro le sbarre, invece, la politica rappresenta l’argomento di discussione più diffuso, più ancora dello sport o delle ricette gastronomiche. Ovviamente le questioni più dibattute, quasi a senso unico, sono quelle legate al tema della giustizia e dell’esecuzione penale. Tanti spunti di riflessione che meriterebbero un maggiore ascolto da parte delle Istituzioni.
Oggi il carcere è più un contenitore di marginalità sociale che un luogo di rieducazione. È il riflesso speculare della nostra realtà sociale, «in cui - afferma il Santo Padre - predominano egoismo e indifferenza, che generano la cultura dello scarto. Giustificata da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, la società trova nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali l’unica soluzione ai problemi della vita di comunità»; infatti è più facile reprimere che educare. Le possibilità per i detenuti sono poche, nella stragrande maggioranza, tolta qualche ora d’aria, stanno in sezione abbandonati all’ozio. Al contrario un vero reinserimento sociale dovrebbe prevedere opportunità di sviluppo, di educazione e formazione, di lavoro. Sarò pessimista, ma credo che la Politica rifugga il tema, perché non è elettoralmente premiante. Per questo la denuncia della situazione carceraria è condotta solo da uno sparuto gruppo di coraggiosi e anche i partiti a vocazione garantista hanno abdicato al loro ruolo.

 Occasioni occorrono

Non è possibile non vedere come la giustizia in Italia sia malata. Occorrerebbe una drastica cura per garantire da un lato la certezza della pena (della pena… non del carcere), dall’altro una durata ragionevole dei processi e la separazione delle carriere dei magistrati per realizzare il “giusto processo”. Occorrerebbe una Politica non asservita alla logica degli interessi di parte presenti anche in magistratura; che non tema ricatti e condizionamenti buttando il cuore oltre l’ostacolo per realizzare quella che il neo ministro Cartabia chiama «una giustizia dal volto umano».
L’occasione del Recovery Fund potrebbe garantire le risorse economiche necessarie per la riforma del sistema carcerario italiano, ma ciò non basta! Bisogna ripensare il senso della pena, rivedere l’ordinamento penitenziario e l’intero sistema giudiziario, se vogliamo realizzare nei fatti ciò che i padri costituenti hanno previsto nell’articolo 27 della Costituzione.
«Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur». Così commentava le vicende della seconda guerra punica lo storico Tito Livio quando, di fronte alla richiesta di aiuto ricevuta dalla città di Sagunto, il Senato romano si perdeva in interminabili discussioni, finché la colonia, dopo otto mesi di assedio, fu espugnata e rasa al suolo da Annibale. In parallelo si può affermare che «...mentre le carceri bruciano, a Roma si discute». È più che mai urgente che la Politica si assuma la responsabilità di trovare soluzioni equilibrate: oltre che un imperativo giuridico la questione ha ormai assunto anche una valenza civile e morale.

Fabrizio Pomes