«Non siamo in casa». Non è la comune risposta della segreteria telefonica, ma una paradossale verità per noi che pure non ci allontaniamo mai da queste mura. «Questa casa non è un albergo», dicono tante volte i genitori ai figli adolescenti che rientrano solo per mangiare e dormire. Questo alloggio non è una casa ribadiamo noi che, al contrario, desideriamo rientrare al più presto a casa “nostra”.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Non siamo in casa

Profumi, sapori e pentimenti da lontano

DIETRO LE SBARRE

 Casa ma non è casa

Casa dolce casa che manca, sei rimasta nei ricordi dove la felicità era nelle piccole cose, ma solo col passare del tempo se ne conosce il prezzo ed il valore che ha davvero. Dove c’era amore, felicità e gioia.

Tutto quello che serve a una persona per dare colori e un senso alla propria vita. Dove, al giungere delle festività, si imbandivano tavole per famiglia e amici, dove il cibo permetteva di alimentare e rafforzare i rapporti, dove veramente il cibo era un piacere.
Trovarsi poi in carcere, dove il cibo è sciapo, dove l’amore non esiste più, solo rabbia, e ogni volta che cerchi di parlare della realtà in cui ti vieni a trovare e di ciò che hai perso vieni messo da parte e considerato “bizzarro”… Questo mi fa capire quanto abbia dato per scontato ciò che avevo. Allora, senza dare troppo peso ai giudizi altrui, decidi di rimboccarti le maniche e andare avanti.
Una volta un vecchio mentre mi lamentavo mi disse: «Chi non ha vissuto la guerra, la pace non apprezza». Io mi chiesi cosa volesse dire quel vecchio. Solo adesso ho capito il senso di quelle parole. Perché solo nel momento in cui ti trovi a vivere determinate situazioni, riesci a dare il prezzo ed il valore a ciò che hai perso. Così oggi mi rendo conto di come avessi dato per scontato ciò che era realmente importante nella mia esistenza, ora che mi trovo in questa nuova “casa”, e che gli odori ed i sapori che deliziavano i momenti delle festività li ho persi.

Donald Sabanov

 Non lasciate ogni speranza voi che entrate

Quando si pensa alla propria casa si immagina un luogo caldo ed accogliente, pieno di amore e di rispetto, dove ci si può rifugiare quando ci sentiamo deboli e indifesi o siamo stanchi di un’altra pesante giornata scivolata via. Ma qui non è così. La costante mancanza di calore umano e i soprusi subiti ogni giorno portano istantaneamente alla realtà del freddo e apatico carcere. Non si può chiamare “casa” un luogo in cui sei costantemente sotto pressione per evitare di soccombere, dove per far valere i tuoi più basilari diritti si è costretti a far riferimento ad una catena di comando spesso noncurante ed indifferente alle esigenze di chi vive qui.
Fortunatamente ci sono persone coscienziose all’interno di questo gioco, ahinoi terribilmente reale, ed è grazie a loro se spesso otteniamo piccole attenzioni, che ci trasmettono un po’di quell’ottimismo di cui abbiamo tanto bisogno nella nostra condizione di reclusi. Poi ci sono i nostri angeli; i volontari delle varie associazioni; caduti per propria scelta in questo girone dantesco, che sono al nostro fianco ogni giorno, nonostante le difficoltà, per cercare di farci vivere più serenamente la nostra difficile condizione. È vero, qui la mattina ti svegli con il profumo del caffè caldo e fumante che inebria la stanza con il suo aroma unico, ma quando apri gli occhi vedi solo una cella troppo piccola per due persone, senti il freddo dei muri di cemento armato entrarti nelle ossa e guardando fuori dalla finestra vedi il cielo tagliato dai profili delle sbarre, quasi fosse una scacchiera. Realizzi allo stesso momento che questo non è un gioco e questa non è casa tua.
Pensare nei primi momenti mattutini a tutto ciò che è rimasto fuori da queste mura, accende la fiamma della speranza e ti catapulta in un sogno ad occhi aperti, interrotto però dallo sferragliare del mazzo di chiavi in mano al guardiano del nostro limbo e dagli scatti delle demoniache serrature.
Non ritengo sia giusto piangerci addosso, perché tutto questo fa parte del gioco che abbiamo voluto giocare: se fosse un luogo troppo ospitale non sarebbe un deterrente per le azioni criminose, e del resto una casa ce l’avevamo, ma involontariamente o meno abbiamo scelto noi di cambiarla. Ciò non toglie che anche in carcere non farebbe male riuscire a trovare quell’umanità necessaria a non perdere il contatto con i sentimenti più veri. “Chiunque verrà da loro, amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà”. È proprio qui, tra ladri e briganti, la necessità più forte di bontà e amore, tra gli ultimi, per smettere di definire questo posto “carcere” e iniziarlo a chiamare veramente “casa circondariale”, dove ognuno di noi possa scontare la propria condanna mantenendo la dignità e il rispetto che in ogni buona casa alberga.

Marco Mangianti

 La casa dalle finestre che piangono

Molti accedono al prestito bancario per diventare, dopo anni di fatiche e preoccupazioni, proprietari di un immobile, altri scelgono l’affitto o vi ricorrono forzatamente se non possono permettersi il “lusso” dell’acquisto, altri ancora, se sono fortunati, la ereditano, con spese e oneri di mantenimento. La casa, quindi, rappresenta il dolce approdo di una vita, ma, al tempo stesso, problemi ed impegni spesso rilevanti.
Noi detenuti, invece, abbiamo sempre un posto riservato tutto per noi, seppur ristretto; la giustizia ci obbliga a soggiornare qui e, se siamo “definitivi”, cioè condannati con sentenza passata in giudicato, ci richiede anche un “affitto”, o meglio una quota di mantenimento per spese di vitto e alloggio di 3,60 euro al giorno che viene detratta dalla mercede (lo stipendio dei carcerati) quando abbiamo la fortuna di lavorare. E mi chiedo se sia giusto pagare questo canone, dal momento che il reato lo stiamo pagando con la privazione della libertà personale. Mi sembra un circolo vizioso!
Lo spazio vitale (davvero minimo!) che la giustizia ci riserva è di solito condiviso con uno o due sconosciuti, e questa è una afflizione, una seconda galera, che si aggiunge alla pena: la Dozza, costruita negli anni Ottanta ed aperta nell’85, è stata progettata per 480 detenuti, mentre adesso siamo 900, con 4 metri quadrati a testa. Il sovraffollamento in misura più o meno rilevante, rappresenta davvero una pesante pena aggiuntiva, e senz’altro in questo periodo il trend delle presenze sta aumentando in modo preoccupante. Ogni cella è di 12 metri quadrati, compreso il bagno in cui, oltre al wc, c’è un lavandino ed un lavapiedi a terra, utile soltanto per riporre i secchi per la pulizia della cella. Solo in una sezione dell’istituto le docce con acqua calda sono nei bagni della cella, mentre nel resto del carcere ci si lava in spazi comuni, con tre docce ed un lavabo per sezione.
La nostra “casa” è sempre molto ben illuminata. Non disponendo di interruttori abbiamo la “fortuna” di avere luce 24 ore su 24 sia nella camera di pernottamento (così si chiama oggi la cella) sia in bagno, alla faccia del risparmio energetico.
Credo quindi di poter affermare che il carcere e le celle a noi riservate sono la casa in cui nessuno vorrebbe abitare.

                                                                                                                                                                Maurizio Bianchi