Uno zio cavallo in Etiopia

Un campo missionario e nuovi progetti di formazione scolastica

 di Nicola Verde
vicesegretario dell’Animazione Missionaria Cappuccini dell’Emilia-Romagna

 Mio zio è un cavallo

Ci sono momenti in cui alcune parole illuminano gli eventi vissuti, illuminano e danno significato ai fatti.

Normalmente succede dopo che il tempo ha fatto depositare tutto nel profondo del nostro corpo e del nostro spirito. Una di queste parole è arrivata durante un pranzo con i nostri missionari in Etiopia a Gassa Chare con i volontari del campo. È un proverbio etiope che dice: «Se chiedi a un mulo: chi è tuo padre? lui ti risponde: mio zio è un cavallo».
Sappiamo bene che il mulo è un incrocio tra il maschio dell’asino e la femmina del cavallo. Ma il mulo in Etiopia sembra essere particolarmente fiero di avere uno zio cavallo. Gli piace definirsi non in relazione al padre asino, ma in relazione allo zio cavallo, cioè in relazione alla madre femmina di cavallo. Gli antropologi, sorridendo un po’, potrebbero dirci che i muli in Etiopia hanno una discendenza matrilineare.

 Percorso storico

Il nostro campo missionario è iniziato in Addis Abeba con la visita all’università di Ethiopian Studies. Tre giovani ricercatori dottorandi ci hanno accolto per accompagnarci in una visita storico-culturale all’università partendo dal palazzo imperiale che è posto al centro dell’area universitaria circondato da grandi alberi. Attraverso una serie di pannelli ci hanno illustrato gli ultimi secoli della storia del popolo etiope, compresa la parentesi del “colonialismo” italiano e le vicende del generale Graziani. Non hanno mancato di raccontarci la sua brutale e feroce azione militare insieme alla resistenza etiope durata fino al ritorno dell’imperatore Haile Sellassie.
Non sono mancati nemmeno i riferimenti alle grandi donne etiopi che hanno sostenuto le azioni politiche per la libertà dell’Etiopia: l’imperatrice T’aytu «molto coraggiosa, come del resto tutte le donne etiopi, dal carattere forte, a volte altezzoso, imponente e piena di finezza» (Prouty, 1986, p. 137) che ha guidato in maniera brillante l’esercito etiopico contro gli italiani nel 1896; Sylvia Pankhurst che dalla Gran Bretagna sostenne l’imperatore Haile Sellassie gestendo la sua campagna per la libertà dal fascismo in maniera da consentire il suo ritorno in Etiopia. L’invasione dell’Etiopia avvenne il 3 ottobre del 1935 con Benito Mussolini. Sulle cartine dell’Africa, l’Etiopia spiccava come l’unica terra non colonizzata dagli europei e rappresentava perciò un affronto all’universale supremazia dei bianchi. Come poteva esistere uno stato indipendente in Africa quando l’intero continente era sotto il dominio europeo?

 Nel palazzo dell’imperatore

Dopo il percorso storico, abbiamo visitato le stanze del palazzo dell’imperatore e dell’imperatrice, lo stesso palazzo che fu occupato, solo per breve tempo, dal generale Graziani. Tutto è ancora intatto: i divani, il tavolo, il letto a baldacchino, il bagno con la vasca color turchese con piastrelle in ceramica, lavandino con accessori in ottone, specchi color oro in stile anni Venti-Trenta. All’ingresso delle stanze un leone imbalsamato, simbolo dell’imperatore d’Etiopia. L’utilizzo del palazzo come abitazione italiana si caricava di un significato simbolico potente: era la presa di possesso dell’impero.
La nostra visita è poi proseguita con la storia religiosa del paese attraversando icone copte della tradizione cristiana ortodossa, testi sacri antichi, evangeliari, abiti monastici e liturgici, fino a raggiungere l’ultimo piano del palazzo per un percorso etnico-antropologico che raccoglie oggetti, utensili, strumenti musicali, cultura materiale ma anche riti, abitazioni, abiti e danze delle principali etnie storicamente presenti in Etiopia. Tutto è finito con un buonissimo e profumato caffè etiope nel bar dell’università. Nei volti di questi giovani ricercatori abbiamo visto tanta fierezza per una storia che vive nella loro memoria. La fierezza di “giovani leoni” che raccontano un colonialismo brutale anche se superficiale, vinto in pochi anni dalla loro gente (nel 1941 l’imperatore Haile Salassie ritorna in Etiopia). Tante volte i nostri missionari ci hanno parlato della fierezza del popolo etiope che si colora di gentilezza e finezza.
Durante la seconda settimana di campo abbiamo incontrato nella regione del Dawro Konta, nel sud del paese tra le gole del fiume Omo, un altro gruppo di giovani studenti, questa volta delle scuole superiori. Insieme ai loro coetanei italiani di una scuola di Scandiano (RE) hanno realizzato un progetto educativo dal titolo “così lontani, così vicini” per favorire uno scambio culturale e per abbattere stereotipi e pregiudizi. I giovani etiopi ci hanno detto, anche loro con un piglio di fierezza, che l’Etiopia «non è solo il Dawro Konta dove prevale la povertà e la scarsità di mezzi, strade, lavoro e infrastrutture, ma l’Etiopia è anche altro con città culturali, ricche e ben sviluppate» e in più erano fortemente stupiti nell’aver costatato che i giovani studenti italiani non sapessero nulla della storia del colonialismo italiano e della storia di Etiopia. Stupore ancora più grande per il fatto che invece loro, nei programmi scolastici, studiano la storia italiana con i suoi movimenti civili, sociali e politici ma anche il pensiero italiano con i suoi poeti e filosofi oltre alla storia coloniale del loro paese. 

La costruzione di un’identità

A questo punto possiamo farci alcune domande. Quanto gli etiopi costruiscono la loro identità e fierezza nella relazione con gli italiani e gli eventi storici del colonialismo italiano? Quanto gli etiopi costruiscono la loro identità di africani non-colonizzati nel contesto del più ampio colonialismo africano? E quanto tutto questo è ancora costruito oggi nelle scuole, nelle università e nei musei per tenere viva una memoria storica e un primato politico-economico sia con gli stati africani che con le ex potenze coloniali? Quel piglio di fierezza etiope intravisto dai missionari è storicamente fondato, ma forse è anche politicamente e culturalmente costruito.
La scuola di Scandiano ha recepito la lezione e la provocazione. C’è un vuoto storico-culturale che ci portiamo dentro e dietro, e che deve essere colmato. Le insegnanti hanno deciso di avviare un percorso formativo con i loro studenti sul colonialismo italiano in Africa e in particolare in Etiopia. Hanno deciso di farlo non solo attraverso lo studio della storia, ma coinvolgendo i giovani studenti attraverso visite ai musei per immergerli nelle immagini, nei canti, nella stampa e nei simboli coloniali italiani. Possiamo chiederci quanto anche noi costruiamo la nostra identità di “italiani brava gente” nella non-relazione con gli etiopi e con gli eventi storici del colonialismo africano? Quanto la fierezza dell’italiano bravo e buono è politicamente e culturalmente costruita attraverso il vuoto storico della scuola, nella non-relazione, cioè con l’oblio del colonialismo italiano in Etiopia?
I nostri campi missionari in Etiopia servono anche a questo, per farci prendere coscienza di quali processi culturali, politici e sociali mettiamo in atto per dire che siamo “italiani brava gente”, per farci scoprire che i muli in Etiopia hanno uno zio cavallo, e che Gesù il “leone di Giuda” missionario è entrato in Gerusalemme come re mite, cavalcando un asino figlio d’asina.