Fioretto Cappuccino

Come frate Masseo fu causa di tre misfatti

 Il convento di Rimini, come tanti altri conventi cappuccini, è un labirinto, un insieme di corridoi che si incrociano in ogni direzione, di scale con alti gradini, e di celle e cellette dove studiano o dormono i frati.

Frate Masseo vi dimorava da tanti anni e ne conosceva ogni angolo: un giorno questa sua competenza gli risultò provvidenziale.
Madre natura non era stata molto generosa con lui e non lo aveva fornito di una statura che potesse dirsi imponente, tutt’altro. Ma frate Masseo, alto appena poco più di un palmo dei lillipuziani, non vi faceva caso, perché le dimensioni tanto ridotte del suo fisico non erano prive di vantaggi. Non era cosa da poco poter risparmiare sulla stoffa per confezionare l’abito, o trovare sempre disponibili sul mercato taglie di mutande o di maglie adatte alla sua corporatura e perciò meno costose. Insomma anche la statura gli dava una mano per vivere la frugalità francescana. Inoltre, e questo non era un particolare affatto trascurabile, l’essere piccolo gli consentiva speditezza nel camminare e, al bisogno, velocità nel correre, anche se due passi dei suoi equivalevano a un passo di un uomo dalla statura normale. Frate Masseo però possedeva un’altra caratteristica tutta sua: anche di fronte alle situazioni più scabrose e imbarazzanti, non riusciva a trattenersi dal fare sempre una rumorosa risata battendosi una mano sulla testa ed esclamando: «Oh purèta me!» (Oh povero me). Ma lui era fatto così, e le esplosioni delle sue risate lo rendevano simpatico alla gente e, quando rideva lui, ridevano anche gli altri.
In quel medesimo convento di Rimini viveva anche un certo frate Casimiro, sacerdote e sacrista della chiesa, di cui curava ogni giorno il decoro con tanta passione, non solo quanto a pulizia, ma anche abbellendola sempre di fiori freschi e profumati. Non era certo un fiorista sopraffino, ma si arrangiava un po’ alla cappuccina con il metodo tradizionale. Possedeva, e ne era quanto mai geloso, una serie di antiquati vasi di vetro dal lungo collo, di varie misure, tutti alquanto fragili, che teneva riposti in un bugigattolo sotto chiave per paura che qualcuno li rompesse. Alla bisogna, li estraeva, vi infilava i fiori con tutto il loro gambo, li riempiva di acqua, e poi li collocava sulle mensole a gradinata poste a lato del tabernacolo dell’altare maggiore.
Una mattina, trovandosi frate Masseo in chiesa a recitare il rosario andando su e giù per la navata, vide entrare un prete, che gli chiese di confessarsi. Frate Masseo, che non diceva messa perché solo «frate questuante», lo invitò ad attendere un frate sacerdote e pigiò sul pulsante del campanello posto vicino al confessionale, nel modo convenzionale tra i cappuccini per chiamare il frate sacrista: una suonata lunga e una breve. Nel frattempo, il suo sguardo fu attirato da un vaso di fiori dell’altare maggiore che stranamente non era allineato come si doveva. Era proprio uno dei più lunghi e di quelli posti più in alto, dietro a tutti gli altri. La tentazione di metterlo in ordine era troppo forte per resisterle: prese una sedia, vi salì sopra, si sporse sull’altare e allungò per quanto poteva il braccio per raggiungere il vaso e metterlo «in riga».L’intenzione era buona, ma, come era da prevedersi, non ci volle molto perché frate Masseo perdesse l’equilibrio e urtasse maldestramente i vasi vicini. Frate e vasi rovinarono a terra. Con il risultato di uno sparpagliamento di fiori e di cocci di vetro sul pavimento. Fortuna volle che frate Masseo avesse la testa particolarmente dura, perché non riportò danno alcuno da quella caduta. Si rialzò, e, come era da prevedersi, scoppiò in una risata accompagnata dalla solita battuta della mano sulla testa. Subito dopo però, immaginandosi come avrebbe reagito il frate sacristia, esclamò preoccupato come al solito: «Oh purèta me!». Il prete era accorso in aiuto, ma che avrebbe potuto farci? Ormai la frittata era fatta.
Frate Casimiro, frattanto, avendo udito il doppio suono del campanello, a passo lento si era incamminato verso la chiesa. Appena entrato genuflesse davanti all’altare, ma poi vide. Vide… Dire che rimase come paralizzato, tanto da sentirsi venir meno, è ben poca cosa. Ma solo per un istante. Comprese all’istante chi ne fosse il colpevole. Si precipitò in sacrestia e afferrò una scopa. Frate Masseo, fiutando il pericolo, se l’era già data a gambe levate, subito inseguito, però, da frate Casimiro che brandiva minacciosamente la scopa. La corsa dei due si dimostrò impari: frate Masseo, piccolo e veloce come un capriolo, sembrava come giocare tra i corridoi e le scale, mentre frate Casimiro, più lento per l’età e impacciato dalla sua arma, non riusciva a tenergli dietro.
Ogni tanto, si intravedevano reciprocamente nei meandri del convento, ma frate Masseo trovava sempre la via giusta per evitare di essere raggiunto dalla scopa. Fu frate Casimiro a darsi per vinto per primo e mestamente tornò ansimante in chiesa con la sua scopa, che finalmente fu usata per quello per cui era stata fatta. A ogni colpo di scopa nel raccogliere i cocci dei suoi amati vasi, sentiva il sangue ribollirgli dentro, anche perché frate Masseo si era eclissato chissà dove, guardandosi bene dal venirgli a dare una mano.
Il prete nel frattempo, avendo intuito la scena di frate Masseo inseguito dalla scopa di frate Casimiro, disse tra sé: «Io da un frate così severo non mi vado certo a confessare!». Girò su se stesso, prese quatto quatto la porta della chiesa e andò altrove a deporre il peso dei suoi peccati, nella speranza di trovare frati armati solo di scope che puliscono l’anima. Quanto a frate Masseo, per alquanto tempo si tenne alla larga da frate Casimiro, perché in convento di scope ce n’erano ovunque e sempre a portata di mano.
Così, quella mattina, frate Masseo fu causa di tre misfatti: aveva rotto alcuni rari vasi di vetro, aveva fatto infuriare frate Casimiro e aveva fatto fuggire un prete di chiesa. Da quel giorno frate Masseo, appena vedeva una scopa, non solo in mano a un confratello mentre puliva il corridoio, ma anche solo appoggiata al muro, aveva un sobbalzo, e rivedeva ancora frate Casimiro a rincorrerlo.
Ma poi si convinceva che tutto era ormai acqua passata, perché frate Casimiro era stato trasferito in altro convento, e si metteva il cuore in pace. Ma nel raccontare ai confratelli l’episodio di quel frate che lo inseguiva armato di quell’aggeggio, non riusciva a trattenersi dell’esplodere in una risata delle sue e dal battersi le mani sui pochi capelli che aveva, esclamando: «Oh purèta me!».