Lo smartphone nella mano, i ceppi alle caviglie

Lo smartphone nella mano, i ceppi alle caviglie

Recuperare la libertà (fisica e relazionale) per essere liberi dai social e nei social

 di Michele Dotti
direttore di L’Ecofuturo Magazine

 

La nostra società sta cambiando profondamente - anche per via del rapidissimo progresso tecnologico - e ci pone spesso di fronte a questioni nuove, che non abbiamo vissuto personalmente durante la nostra infanzia.

I social ne sono un esempio emblematico, che pone a chiunque abbia a cuore solidarietà, ecologia e intercultura un serio dilemma. Sappiamo perfettamente che risulta determinante - specialmente per i più giovani - l’esperienza vissuta nel formare la visione del mondo. E questo ci spinge a impegnarci per offrire ai nostri bambini e ragazzi occasioni concrete di crescita umana e culturale.
D’altra parte, conosciamo anche l’importanza delle informazioni che riceviamo, sotto ogni forma, nel condizionare e orientare quella stessa visione. E da questo punto di vista non possiamo fingere di non vedere quanto sta accadendo, anche su un piano quantitativo: secondo recenti statistiche, la generazione dei Millennials (i nati tra il 1981 e il 1996) passa davanti allo smartphone quasi 4 ore al giorno e non sono da meno i più giovani, quelli della Generazione Z (le persone nate fra il 1995 e il 2012), che trascorrono più o meno lo stesso tempo allo smartphone. Le stime si abbassano, ma di poco, andando più in su con l'età: la Generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980) passa in media 3 ore al giorno al telefono.
Sono ore che difficilmente un genitore che lavora riuscirà a ritagliarsi ogni giorno per stare insieme ai propri figli. Su un piano puramente quantitativo, quindi, non possiamo neppure sperare di competere con un device che è sempre pronto a rispondere. Però la qualità del tempo che offriamo ai nostri piccoli è fondamentale e occorre preservarla ad ogni costo, facendo attenzione anche alla distrazione che deriva dal tempo che noi stessi dedichiamo ai nostri device, che non sempre è per lavoro e rischia spesso di portarci vicini alle statistiche sopra citate per i più giovani. La domanda che si pone allora è chiara: le ore trascorse al cellulare, o davanti ad un altro device, sono rubate alla vita reale? O sono esse stesse vita reale? Proviamo a fornire qualche spunto di riflessione su questo tema, se possibile senza banalizzarlo.

 Chiusi al chiuso

Anzitutto c’è la questione del tempo che passiamo all’aperto, che coinvolgendo tutti i sensi è insostituibile (anche per la nostra salute) e gioca un ruolo fondamentale a livello educativo, specialmente per lo sviluppo psico-fisico dei più piccoli. Avrete sentito forse di una recente ricerca che ha mostrato come i carcerati, anche quelli nei regimi di massima sicurezza, passino in media più tempo all’aperto dei nostri bambini! (E leggono anche più libri grazie a dei progetti educativi che si stanno diffondendo in molti Paesi, che offrono un piccolo sconto di pena per chi legge e relaziona correttamente sui libri letti).
Sembra impossibile; però, se ci pensate bene, i detenuti hanno due ore d’aria al giorno, mentre molti nostri ragazzi in effetti ne hanno di meno: escono di casa, salgono in auto, scendono dall’auto, entrano a scuola; escono da scuola, salgono in auto e tornano a casa; escono di casa, salgono in auto, vanno in palestra (o un qualunque altro hobby); escono dalla palestra salgono in auto e tornano a casa. Come pensiamo che possano scoprire la natura, innamorarsene, imparare a rispettarla e sentire il desiderio di difenderla, se non la vivono mai? Come pensiamo che possano maturare empatia e solidarietà se vivono al chiuso e spesso ovattati, azzerando ogni minimo rischio anche solo di farsi un piccolo graffio a un ginocchio cadendo su un prato e sentendo poi la vicinanza di un amico? Temo che per evitare le spine si rischi talvolta di rinunciare anche al profumo della rosa.

 Segregati dalla paura

C’è un’altra questione che vorrei affrontare, quella del tempo per le relazioni con i pari. Basta analizzare i videogames di maggiore successo per accorgersi che oggi hanno tutti un tratto comune: permettono di giocare contemporaneamente online con gli amici, commentando la partita giocata insieme e al contempo scambiando chiacchiere su qualunque tema, anche al di fuori di essa.
In pratica questa nuova generazione di videogiochi assomiglia molto a un sistema di video-chat e ho il forte sospetto che essi siano diventati per molti giovanissimi un surrogato delle relazioni reali, che spesso noi adulti non permettiamo loro di vivere (questo già prima della pandemia) per via delle nostre paure.
La realtà è che noi stiamo vietando ai nostri figli tante esperienze, semplici quanto preziose su un piano educativo, che noi abbiamo vissuto durante la nostra infanzia. Tutti noi da piccoli ci siamo arrampicati su un albero, abbiamo esplorato liberamente un bosco con gli amici, abbiamo scorrazzato in giro per la città con le nostre biciclette. Ebbene, molte di queste cose vengono oggi vietate - in nome di una presunta “sicurezza” - da tanti genitori, inconsapevoli vittime di una informazione distorta che alimenta paure in larga parte infondate. Se andassimo infatti ad analizzare i rischi legati a queste attività in termini statistici ci accorgeremmo che molti di essi sono totalmente insignificanti. È più probabile vincere al Superenalotto o essere colpiti da un meteorite mentre si cammina per strada.
Eppure, la visibilità che i mass media offrono ai singoli episodi di cronaca nera - per quanto assolutamente improbabili - condiziona l’immaginario collettivo e influenza molti genitori spingendoli, per un istinto di protezione spesso eccessivo, a segregare i propri figli in casa, riducendo il tempo concesso loro per vivere all’aperto con gli amici. In questo scenario, i videogames a cui accennavo diventano quindi un surrogato, una via che permette ai ragazzi di recuperare il tempo per le relazioni con gli amici. Inutile quindi sgridarli per le ore passate davanti ai loro device in questa attività, se prima non ci interroghiamo con molta onestà, guardando dentro a noi stessi.

 

È parte della vita

Infine, tornando ai temi che accennavo in apertura, quelli dell’attenzione alla sostenibilità ambientale, alla solidarietà e al rispetto per le culture, mi sorge spontanea una domanda: perché non utilizzare anche la straordinaria capacità dei nuovi media per educare su questi temi? Perché rassegnarci all’idea che quello passato davanti allo smartphone sia inevitabilmente tempo perso, vuoto e puntare sul resto della giornata per lanciare messaggi educativi ai nostri bambini e ragazzi? Io credo che potremmo invece occupare i social producendo - magari anche insieme ai figli - contenuti positivi, che stimolino riflessioni, portino esempi virtuosi e alimentino un dibattito su questi temi. Se iniziassimo a considerare le ore trascorse al cellulare, non come rubate alla vita reale, ma come parte della vita stessa, potremmo scoprire nuovi spazi educativi e preziose occasioni di relazione con i nostri figli.