Lo scorso 15 gennaio, si è tenuta una tappa fondamentale del percorso di costruzione del prossimo Festival Francescano, che si terrà a Bologna dal 27 al 29 settembre 2019. Si sono riuniti, infatti, i rappresentanti del Comitato scientifico per “discutere di dialogo”, una solo apparente tautologia.

a cura della Redazione

 Cercasi dialogo appassionatamente

Pensieri e propositi per un festival del dialogo 

di Chiara Vecchio Nepita
Responsabile Comunicazione del Festival Francescano

 Non per aver ragione ma per vivere!

In questo articolo proponiamo alcune delle riflessioni scaturite dal Comitato scientifico, e vi invitiamo a suggerire i vostri personali punti di vista sulla pagina Facebook di Festival Francescano, in modo da iniziare una conversazione che sia il più possibile globale.


Anna Pia Viola, teologa e francescana secolare, ha attinto dal metodo filosofico che le è proprio per l’insegnamento che tiene presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. Con un approccio dialogico e aperto alle polarità, Viola afferma che «in quanto via che usa la parola, il dià-logos crea la condizione perché l’altro possa rendere chiaro il suo pensiero, il suo sentire, il suo bisogno e la sua speranza. A volte si usa la parola come espediente sottile per mettere l’altro alle strette, per mostrare una superiorità volta ad annullarlo, renderlo inoffensivo o, astutamente, a servircene. Il dialogo non è fatto per convincere né tantomeno per convertire. Non va confuso con la negoziazione o la ricerca di consenso. Per creare le condizioni perché si verifichi l’incontro fra le persone, occorre ritornare ad usare parole che siano cariche di senso e gravi di responsabilità. L’incontro è un evento che scaturisce dal racconto, dalla parola che è narrazione del vissuto. A tal fine si può provare a dare spazi concreti e tempi dedicati all’ascolto, esercitando la pazienza che abilita alla ricerca di un orientamento. Il dialogo serve per vivere», continua Viola, «non per decidere chi ha ragione, diritto o priorità di vivere. Questa esigenza è diventata sempre più urgente e dal campo interreligioso si è spostata in quello culturale e antropologico in senso più proprio».
Il testimone viene colto dal sociologo Stefano Allievi, docente presso l’Università degli Studi di Padova e autore di numerose pubblicazioni sulle migrazioni, che spinge la riflessione sul versante dell’attualità e della società. Fermo sostenitore del fatto che il vero dialogo non possa essere delegato a un’élite ma che debba partire dal basso, rispetto alla questione che ritiene oggi più divisiva, Allievi afferma che l’emergenza più forte è «il dialogo interno, cioè non il dialogo tra noi e i musulmani ma tra noi a proposito dei musulmani e degli immigrati in genere».

 Un paradigma nuovo

D’altro canto, pare necessaria un’alfabetizzazione religiosa ad ampio raggio, che sia «sorgente di comprensione e di riduzione del conflitto e del costo sociale del pluralismo religioso». È questa la riflessione e l’esperienza di Francesca Cadeddu, membro della Commissione sul pluralismo, la libertà e le scienze religiose nella scuola presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Esperienza, questa, che viene condivisa anche da Marco Dal Corso, insegnante in un liceo e membro di un gruppo di ricerca presso l’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” di Venezia. Insieme ai colleghi, Dal Corso ha individuato un nuovo paradigma per ripensare la questione del dialogo, quello dell’ospitalità. «Perché c’è bisogno di un nuovo paradigma? Perché abitiamo un mondo nuovo, dove le conflittualità non sono più determinate dalle ideologie economiche e politiche ma da identità reattive. Perché viviamo un momento di svolta. Perché continuare a pensare così reca danno: se abbiamo superato il pensiero esclusivista, non siamo però fuori da complessi di superiorità e dalla poca valorizzazione di altre religioni. Infine, perché c’è un’urgenza civile, politica e umanitaria».
A quest’ultimo punto fa eco il contributo di fra Paolo Canali, direttore dell’Editrice Biblioteca Francescana, il quale suggerisce due ambiti d’incontro che gli sembrano più urgenti: quello ad intra, ovvero interno alla Chiesa e quello con il “negativo”, sulla base dell’insegnamento di san Francesco.

 San Francesco, padre performativo

Un composito affresco sul modo di affrontare il dialogo all’interno della Chiesa, lo ha tracciato Brunetto Salvarani. Secondo il noto teologo, “dialogo”, nel vocabolario ecclesiale, è un neologismo di Paolo VI, che ne parla nella lettera enciclica Ecclesiam Suam (6 agosto 1964). I Padri della Chiesa si erano posti il problema del dialogo con i neoplatonici ma senza frutti, mentre nei secoli successivi si evidenzia una logica esclusivista ed ecclesiocentrica. Dopo Paolo VI s’inaugura una storia nuova, che porterà, con Giovanni Paolo II, al 27 ottobre 1986, quando ad Assisi si radunarono per la prima volta i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali. Nei tempi successivi all’11 settembre 2001 (attentati terroristici negli USA), si cade nel regime della paura e pare venga accettato lo schema dello scontro di civiltà che fa sì che il dialogo venga radicalmente messo in discussione in nome dei rischi che esso provoca. «Credo sia evidente che con papa Francesco la partita si sia riaperta nello slogan del camminare insieme», continua Salvarani, «ma l’ostilità al dialogo non è finita. Troppo spesso si finisce nel buonismo. Il dialogo non è ovvio e non è scontato, sebbene sia l’unica prospettiva che permette di guardare con occhi diversi il futuro».
Fra Giuseppe Buffon regala un’altra riflessione storica, questa volta sull’incontro tra san Francesco e il sultano, avvenuto a Damietta, in Egitto, ottocento anni fa. La domanda da porsi è: «Da un punto di vista prettamente storico, che cosa produsse quell’incontro? Poco. Al tempo di Francesco molti preferirono tacere quel fatto, considerato poco glorioso. Biografi e storici paiono delusi: Francesco non convertì il sultano e non ne uscì martire». La chiave di lettura, secondo Buffon, è quella della contemporaneità, «che assume l’elemento di Francesco come parola performativa, cioè capace di suscitare arte e riflessione. Penso, per esempio, a tutta la corrente dell’arte povera: è dentro a questa corrente, che contesta già negli anni Settanta il consumismo, che matura l’idea di un Francesco del dialogo».
Dalla storia dell’umanità a quella personale. Fra Fabio Scarsato, direttore editoriale del Messaggero di Sant’Antonio, riporta l’esperienza dell’incapacità a dialogare all’interno di molte famiglie o tra vicini di casa. Scarsato vede due tipologie di dialogo improduttivo: quello “tollerante”, nel quale si rispettano i turni della parola ma l’ascolto è vuoto, e quello “indefinito”, che ritorna sempre uguale a se stesso, senza produrre effetti.
In conclusione, un’indicazione metodologica che arriva dal teologo fra Paolo Benanti, ma ampiamente condivisa anche dagli altri rappresentanti del Comitato scientifico, è quella di fare esercizi di dialogo su temi che toccano tutti, piuttosto che fermarsi alla definizione di dialogo. Del resto, secondo il frate esperto di nuove tecnologie, nell’ambito del dialogo tra le culture è ricompreso tutto, in quanto anche la scienza e la tecnica sono culture.