Ministro, sì, ma di misericordia

Francesco ci invita a non scandalizzarci, ma a perdonare fino alla fine

 di Chiara Gatti
francescana secolare e counsellor di base

 Appartiene alla variegata serie delle Lettere scritte da san Francesco la cosiddetta Lettera a un ministro, definita giustamente da molti un capolavoro non solo di letteratura medievale, ma anche di fine psicologia e alta spiritualità, per la straordinaria capacità dell’autore di scandagliare le pieghe dell’animo umano e le sue ricadute nell’ambito della vita fraterna.


Se dunque un testo si comprende a fondo proprio a partire dal contesto, senza il quale lo si potrebbe spesso travisare, sappiamo che questa lettera è stata scritta intorno al 1221, quando sicuramente Francesco è già tornato dalla Terra Santa, estremamente affaticato nel corpo per la malattia che lo affligge e per l’apparente insuccesso della strana crociata che ha condotto. Inoltre nel testo si accenna al futuro Capitolo di Pentecoste che gli storici individuano come quello del 1221, a cui avrebbero partecipato non tutti i frati, ma solo i custodi e i ministri. E tra questi ministri avrebbe sicuramente dovuto esserci questo ipotetico e anonimo ministro, N. appunto, dal nome generico perché diventi forse emblema di tutti. È dunque uno scritto che nasce da un uomo che ha conosciuto in molte forme la fragilità: il proprio peccato in gioventù, la sconfitta dei sogni di gloria, talvolta l’insuccesso dell’annuncio, il dolore della malattia, il rifiuto dei propri fratelli. Così, col desiderio, continuamente custodito, di rimanere fratello maggiore e non padre supremo, dà indicazioni appassionate, sentendosi quasi un ministro generale dell’Ordine, se non realmente, almeno in pectore.

 Gli occhi sul Padre

In tal modo la lettera presenta due parti ben distinte: la prima di ordine più intimo e spirituale relativa al tema del vivere la misericordia («per quello che riguarda la tua anima»… «e quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio»), e la seconda di ordine più giuridico e organizzativo inerente al modo di condurre il tema della correzione fraterna. È quindi nella prima parte che si ritrova tutto il pathos di un uomo, Francesco, che parla a questo ministro con l’intero bagaglio della propria esperienza personale e, per tale motivo, mai pare dettare regole dall’alto in maniera asettica e distaccata. Il santo, qui verso la fine della sua vita, conosce ormai bene i tranelli e la fatica di dover gestire l’ambizione di realizzare la propria idea di perfezione. Conosce fino in fondo il rischio di una perfezione di santità autocentrata, che perda di vista l’amore del prossimo, avendo già fatto prima l’esperienza di aver amato con maggiore bontà alcuni fratelli, che si rivolgevano a lui ed erano turbati da tentazioni e deboli di spirito, chiamandoli «bambini fluttuanti» di cui avere tenera compassione, come ci racconta il biografo Giovanni da Celano.
Così, quando si rivolge in tal modo a questo ministro, gli offre la sua grande intuizione, quella che è stata vera anche per lui, quella che ha sempre tenuto presente per non perdere quell’obbedienza caritativa al Padre, che in questa lettera ci appare a tutto tondo come Padre della misericordia.
E se è vero che tra i principi odierni delle regole della comunicazione c’è il principio di circolarità, per cui non esiste inizio in un’ottica relazionale, ma siamo sempre preceduti dalle parole o dagli interventi di altri che generano i nostri, anche questo inizio della lettera si lega a passaggi e a vicende che possiamo solo ipotizzare. Sullo sfondo, infatti, come una sorta di precedente sequenza narrativa sottesa, c’è un prima: il peccato grave commesso dal frate suddito, lo scandalo interiore manifestato dal ministro a questo proposito ed il suo profondo turbamento, causato dal male altrui, paragonato ad una sorta di “battiture” a cui questo superiore viene sottoposto per il disagio dell’altrui fragilità. Certamente sullo sfondo c’è anche la verità che vive il ministro: trova estremamente difficile combinare la sua idea di santità fraterna con quello che ha davanti agli occhi, al punto da desiderare la vita in un eremo per non contaminarsi con la bassezza del peccato che gli viene portato e consegnato.

 Quale perfezione?

E qui comincia appunto la lettera, in seconda sequenza, inserendosi proprio nella crepa dell’indignazione del ministro stesso: Francesco però usa una pedagogia graduale e lo conduce, passo dopo passo, a capire un’altra verità, certamente più profonda, e figlia della carità, di quell’”amare il Signore Iddio”, che risalta come il valore più importante da non dimenticare mai. Diventa una grazia, infatti, come subito gli annuncia, il poter sopportare tutto questo scandalo che nasce dall’impedimento altrui, dalla ruga che si crea sulla perfezione, perché solo credendo a questo si entra nella “vera obbedienza”. Come non sentire qui l’eco dell’evangelico «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), che fa seguito proprio al forte invito di Gesù ad amare i propri nemici, coloro appunto che diventano per noi ostacolo e impedimento? In quel “perfetti” si coglie, infatti, una verità d’amore pieno, compiuto, (etimologicamente perfectus deriva proprio da perficere = compiere), fino a giungere al «Tutto è compiuto» di Gesù, pronunciato sulla croce pochi istanti prima di spirare. Cogliamo quindi l’immensità di un Amore che si dona, che va ben oltre quella presunta aspirazione di perfezione umana a cui aspira il ministro, messa in luce da due verbi che Francesco usa riguardo al suo modo di pensare: non esigere e non pretendere. Le maglie dell’esigenza morale del ministro sembrano stringersi ancor di più sull’imperfezione dei fratelli! Ma Dio è solo Amore, sembra dirgli Francesco, e tu da Lui ricevi quello stesso Amore e solo quello puoi restituire ai fratelli, a tal punto da non volere che siano “cristiani migliori” di quanto non riesca ad essere tu in quel momento, tu che non riesci ad aprire le braccia, tu che non riesci a non giudicare e non scandalizzarti.

 Settanta volte sette

E infine la terza sequenza: nuovamente riecheggiano le parole di Gesù sulla necessità di perdonare «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,22); qui «che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede». Sono gli occhi buoni del ministro, diventati buoni perché consapevoli di quanto perdono lui stesso ha ricevuto, a liberare il cuore e la vita del fratello peccatore e umiliato che a lui si è rivolto. È il suo stesso corpo che parla, che esprime benevolenza in una carezza di sguardo che fa ripartire sereni verso la vita, una Vita così abbondante e piena che, se non viene richiesta dal peccatore stesso, deve essere proposta dal ministro stesso: «e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato». Il perdono può essere ridato “mille volte”, rincara Francesco, perché Dio stesso ce lo dà così: e in questo sta l’attrazione al Signore che generiamo col nostro amore misericordioso verso i fratelli.