Ci vediamo da Mario

Essere vicini al fratello nella gioia, perché è per me peso e salvezza

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 Mi risulta da fonte certa che san Francesco, istigato da qualche putto scanzonato, lasci talvolta i cori angelici per scendere al cielo delle voci rauche

dove ascolta compiaciuto il suo “collega” giullare Rino Gaetano che, su richiesta dell’Altissimo, getta ancora in faccia ai fratelli terrestri la loro vocazione primordiale: «mio fratello è figlio unico, sfruttato, represso, calpestato, odiato e ti amo Mario».
Restare umani, nonostante pesi e nevrosi che affollano la strada di tutti, restare fratelli di Mario che ha un nome proprio molto comune e nessun cognome, fratelli, cioè, del numero maggiore, dei più piccoli (derubati, declassati, malpagati, disgregati ecc.), anonimi e mediocri, ognuno a modo proprio, figli unici e fratelli tutti. Se questa è la sfida, allora bisogna sciogliere un equivoco. Chi si avvicina alla vita dei frati cercando tra le mura del convento un nido che protegga dalle durezze del mondo, sia avvertito: l’indirizzo è sbagliato! «Ma san Francesco non dice di essere uscito dal mondo?». Sì, ma non per godersi una sua intoccabile pace. Dio lo condusse in mezzo ai lebbrosi e lui lì, con loro, fece misericordia, dopo, solo dopo, uscirà dal secolo, cioè dal mondo senza misericordia, che aveva diseducato il suo palato, fino a fargli sentire troppo amaro vedere i lebbrosi che con le loro piaghe maleodoranti gli imponevano di aprire gli occhi su quella fragilità che era tutta sua (cf. FF 110). Uscito dal mondo del privilegio e del potere gerarchicamente organizzato, cosa chiede ai fratelli che si uniscono a lui? Essenzialmente questo: «devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada» (FF 30).

 La sfida della perfetta letizia

Altro che proteggersi dal mondo! Scendere verso i piccoli, stare con loro da minori per costruire fratellanza, perché Cristo per primo è sceso e, nell’umiltà della Parola e del pane spezzato, ogni giorno scende verso di noi per stare con noi, raccontarci l’amore incondizionato del Padre e così costruire fratellanza da capofila su una croce esposto. In altre parole, i frati minori sono evangelicamente sfidati dal loro fondatore ad annunciare la venuta del Regno esponendosi ai colpi del mondo, restando vicini a coloro che, quei colpi, li conoscono, purtroppo, meglio di tutti. Ancor più esattamente: la sfida è vivere tutto questo nella gioia. Ed è questa la nota che unisce i rapporti interni alla fraternità dei minori e quelli con il mondo esterno. «Devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto», da una parte. Dall’altra, la parabola della vera letizia. In una notte d’inverno Francesco, stanco, affamato e infreddolito bussa alla Porziuncola. I fratelli si rifiutano di accoglierlo perché, gli dicono, «è troppo tardi, non meriti la nostra accoglienza. Tu non hai studiato e noi siamo numerosi e sapienti. Non abbiamo bisogno di te. Vai a chiedere ospitalità ai tuoi amici lebbrosi». Dice Francesco: la vera gioia non sta nell’efficacia del nostro annuncio evangelico o nella sovrabbondanza dei miracoli, ma nel non lasciarsi portar via tutta la pace da questa situazione ingiusta (cf. FF 278).
Fuor di parabola: se le eccessive difficoltà relazionali che stai vivendo non ti rendono schiavo dell’impero dell’ira, che dentro di te grida contro i fratelli che Dio ti ha donato, allora, solo allora, la tua gioia è vera. Ma, dunque, san Francesco e Jean Paul Sartre sono abbastanza d’accordo: dentro e fuori dal convento, comunque, “l’inferno sono gli altri”? No, questa conclusione ha ben poco di francescano. Rispetto alle nostre reciproche attese, io e il fratello che vive con me riusciamo senza troppo sforzo a spiazzarci. Ma il dribbling relazionale tra noi non è chiuso in un senso unico di marcia: a volte ci procuriamo ferite nuove, altre volte ci prendiamo cura di quella antica.

 Francesco e Leone

I Fioretti, che hanno poco da offrire sul piano storico, moltissimo su quello simbolico, raccontano che Francesco e il solito Leone, non avendo a disposizione il breviario per la preghiera decisero su proposta del primo di dar lode a Dio dialogando: «Io dirò così: O frate Francesco, tu facesti tanti mali e tanti peccati nel secolo, che tu se’ degno dello ‘nferno; e tu, frate Lione, risponderai: Vera cosa è che tu meriti lo ‘nferno profondissimo». Ma le risposte di Leone vanno invariabilmente nella direzione opposta. Al che Francesco «dolcemente adirato e pazientemente turbato, disse a frate Lione: “E perché hai tu avuto presunzione di fare contr’all’ubbidienza, e già cotante volte hai risposto il contrario di quello ch’io t’ho imposto?”. Risponde frate Lione molto umilmente e riverentemente: “Iddio il sa, padre mio, ch’ogni volta io m’ho posto in cuore di rispondere come tu m’hai comandato; ma Iddio mi fa parlare secondo che gli piace non secondo piace a me”. Di che santo Francesco si maravigliò, e disse a frate Lione: “Io ti priego carissimamente che tu mi risponda questa volta com’io t’ho detto”. Risponde frate Lione: “Di’ al nome di Dio, che per certo io risponderò questa volta come tu vuogli”. E santo Francesco lagrimando disse: “O frate Francesco cattivello, pensi tu che Iddio abbia misericordia di te?”. Risponde frate Lione: “Anzi grazia grande riceverai da Dio, ed esalteratti e glorificheratti in eterno, imperò che chi sé umilia sarà esaltato. E io non posso altro dire, imperò che Iddio parla per la bocca mia”. E così in questa umile contenzione, con molte lagrime e con molta consolazione ispirituale, si vegghiarono infino a dì» (FF 1837).
Il racconto offre diversi spunti importanti per la messa a fuoco di un atteggiamento relazionale autenticamente dialogico. 1) È Leone a manifestare a Francesco ciò che il Santo non riesce a vedere di sé. 2) Francesco riceve da Leone, che non ripete a pappagallo, il dono rischioso della sua differenza. 3) La diversità di pensiero tra Leone e Francesco non mette in dubbio il legame fraterno che li rende alleati l’uno dell’altro, anzi. 4) Anche se le risposte del fratello si discostano da quella che era la sua opinione su di sé, Francesco riconosce la sincerità ispirata di Leone. Così entrambi accolgono una misura più abbondante di verità.

 Non inferno, ma salvezza

Conosco sulla mia pelle la gioia di essere illuminato dai fratelli su un dono di Dio che io non mi riconoscevo e che essi hanno intuito in me. Conosco anche la sofferenza bruciante di trovarsi di fronte ad un rifiuto ingiusto e offensivo. E, per quanto possa sembrare strano, non è così facile e comoda la gioia, visto che il dono, una volta riconosciuto, diventa responsabilità di servizio fraterno. E non c’è solo amarezza nella sofferenza, perché se conservo pazienza nel conflitto mi si aprono squarci di umanizzazione e comprensione, di me e dell’altro, delle mie e delle altrui fatiche, che prima non avrei mai potuto immaginare.
Se si vuole trovare un accordo tra san Francesco e un autore del Novecento è meglio rivolgersi a Dietrich Bonhoeffer che a Jean Paul Sartre. Due brevi citazioni da Vita comune, suo piccolo imprescindibile capolavoro, ce lo dimostrano: «Il cristiano deve portare il peso del fratello. Deve sopportare il fratello, e solo in quanto è percepito come un peso; l’altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare». «Il cristiano ha bisogno del fratello che gli porti e gli annunci la Parola divina di salvezza. Il Cristo nel mio cuore è più debole del Cristo nella parola del fratello». Così l’altro che è per me fratello, peso e parola di salvezza, è la mia gioia, sofferta, ma vera e possibile. Non il mio inferno.