Quando il gioco si fa duro

Nel provvisorio moderno, perseverare è dire “Ne vale la pena!”

 di Maria Giovanna Cereti
madre badessa delle clarisse di Forlì

 Quando varcai per la prima volta la soglia della clausura, quasi diciotto anni fa, durante l’abbraccio e il saluto di pace con ogni sorella della fraternità che mi accoglieva, sentii alcune delle più anziane mormorare un augurio che evidentemente in passato era “rituale” in quella circostanza: «Prego per la tua perseveranza».

La parola mi suonò arcaica e suscitò in me il sorriso un po’ superficiale con cui spesso accogliamo quanto sembra provenire da un tempo ormai lontano… nel linguaggio cui siamo abituati sarebbe suonato molto più caloroso e adeguato un semplice “Benvenuta!”. Avevo incontrato una parola caduta in disuso, perseveranza. E non potevo immaginare allora quanto quella dimensione si sarebbe rivelata essenziale per il cammino che stavo iniziando, e anche quanto stesse a cuore a Francesco e a Chiara, tanto da comparire ripetutamente nei loro scritti.

 La società del perpetuo zapping

Ascoltando l’etimologia della parola, scopriamo che vi riecheggiano un per (a lungo) e severus (rigoroso, forte, duro) che rimandano all’idea di persistere con tenacia, di durare nonostante fatiche e contrarietà. Non è davvero facile per noi utilizzare questa parola. Forse se chiedessimo ai ragazzi cosa significhi, scopriremmo che molti non lo sanno. Il nostro è un tempo inquieto, affascinato dal movimento continuo, sedotto dalla velocità. In generale siamo poco consapevoli della durata dei processi vitali: provate ad accertarvi se i bimbi capiscono la differenza che passa fra l’aprire una busta di spinaci puliti e surgelati acquistati al supermercato per passarli in padella e mangiarli, e il seminare semi di spinaci per veder crescere la pianta e potersi infine servire delle foglie come alimento!
La velocità delle connessioni ha poco a che fare con la fatica di comunicare e di accogliere il dono che l’altro fa di sé nel dialogo. Lo zapping è immagine eloquente della nostra endemica impazienza: chi resta più di qualche minuto sintonizzato su un canale televisivo se qualcosa non cattura immediatamente e trattiene la sua attenzione? La navigazione in rete, mentre apre scenari potenzialmente infiniti, non invita a soffermarsi a lungo su nessuno. L’esistenza di molti potrebbe essere descritta come una “vita a zapping”: incapaci di mettere radici, di legarsi assumendosi la responsabilità di scelte definitive, sempre pronti a lasciarsi alle spalle situazioni, interessi, rapporti, luoghi, scelte che volevano essere “per la vita”. Si persegue, più o meno consapevolmente, l’illusione dell’immediatezza, del tutto-e-subito. «Oggi domina il provvisorio ed è tutto un prendere e lasciare», afferma il filosofo Salvatore Natoli.

 I duri continuano a giocare

La perseveranza dunque riguarda il rapporto che abbiamo con il tempo e con le nostre scelte, è capacità di pazienza, resistenza, attesa. Per molte questioni importanti della vita non può trattarsi del risultato di un breve slancio o dell’opera di un solo giorno. Occorre mettere in conto la paziente accettazione di un cammino lungo e talora rischioso, fatto di progressi e di regressioni, di entusiasmi e stanchezze, di slanci e di ritorni indietro, di riuscite e di fallimenti. Un cammino in cui ci si mette in gioco e si resta in gioco anche quando il gioco non sembra subito valere la candela.
Questa pazienza è fatta di tenacia, per resistere alle sollecitazioni (e sono tante!) intese a far desistere abbandonando ogni obiettivo che non sia immediatamente e facilmente raggiungibile. È fatta di memorie dell’inizio, ritrovate e custodite con ostinazione. È fatta pure di discernimento, per individuare le tante cose che si possono lasciar cadere per rimanere in cammino. E infine di attenzione a cogliere, in se stessi e negli altri, moti impercettibili e segnali discreti che ci dicono: «Coraggio! Vale la pena». Che si tratti dello studio serio di una disciplina o di uno strumento musicale; della pratica di uno sport; dell’impegno nell’amare le persone care; del lavoro su di sé per “limare” i propri spigoli e le proprie incoerenze… quello che importa è uscire dalla logica dell’essere “uomini di un istante” e affondare le radici in una seria decisione e nella volontà di riconfermarla, ogni giorno. Anche quando il prezzo può diventare ben più alto di quanto si era immaginato.

 Francesco e Chiara lo sanno

Sembra averlo ben capito Francesco, che più di una volta riprende l’affermazione di Gesù che ricorre nel vangelo di Matteo (10,22; 24,13): «Chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo» (cfr. Rb X,12: FF 104). Il suo cammino di sequela era sostenuto dalla straordinaria intuizione germogliata nell’incontro con i lebbrosi, di un nuovo modo possibile di stare dentro la vita e di posizionarsi nel mondo “da fratello”; ed era stato segnato da un inizio travolgente e anche da un enorme successo, poiché tanti volevano vivere come lui. E tuttavia Francesco deve aver sperimentato molto presto, in se stesso e nei suoi fratelli, quante cose remavano contro questa decisione. Nella Regola non bollata egli fa una lunga digressione su questo tema, parafrasando la parabola del seminatore: «Guardiamoci bene dall’essere la terra lungo la strada, o terra sassosa o invasa dalle spine…» (tutti quei terreni in cui il seme germoglia subito ma altrettanto presto secca o muore). Secondo le biografie, questa è anche una delle ultime raccomandazioni che Francesco rivolge ai suoi prima di morire: «Beati quelli che persevereranno in ciò che hanno intrapreso!» (FF 806) e «State saldi, figli tutti, nel timore del Signore e perseverate in esso! E poiché sta per venire la tentazione e la tribolazione, beati coloro che persevereranno nel cammino iniziato!» (FF 1241). Anche nei confronti di Chiara, affascinata con le sue sorelle dalla scoperta della povertà evangelica, pare che egli abbia avuto la preoccupazione di raccomandare la perseveranza, come Chiara stessa ricorda nel Testamento: «Raccomandò che perseverassimo sempre nella santa povertà» (FF 2835). In entrambi è evidente la consapevolezza che non si tratta soltanto di mettere in gioco il proprio impegno, ma soprattutto di ricevere un dono: le esortazioni infatti assumono la forma della beatitudine: «Beati davvero quelli a cui è dato di camminare in essa e di perseverare sino alla fine!» (FF 2850).
Sì, perché perseveranza non è soprattutto stringere i denti. «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» dice Gesù nel vangelo (Lc 21,19): ma non parla di uno sforzo titanico di resistenza o di autoperfezionamento, bensì della continuità dell’affidarsi a Colui che è fedele e porterà a compimento in noi la sua opera, nonostante i nostri smarrimenti e lentezze. Lui sì è davvero perseverante e fedele!