Ciò che gli occhi dovrebbero dire

Le nostre relazioni, impostate sulla misericordia, esprimono la gioia di costruire fraternità

 di Fabrizio Zaccarini
Vicemaestro dei postulanti cappuccini a Lendinara (RO)

 Toccato dal tuo sguardo

Non posso toccare con le mani uno sguardo, ma gli occhi altrui posati su di me mi toccano in profondità. Dunque niente è, allo stesso tempo, più astratto e più concreto di uno sguardo.

Quando gli occhi altrui cercano i miei, dentro qualcosa si muove. Come un pugno sul naso, come una carezza sulla guancia, così lo sguardo che traduce la durezza di un rimprovero o il calore di un’accoglienza: come restare indifferenti?
Secondo la biografia dei Tre compagni la madre del giovane e inquieto Francesco, quando intercettava i commenti delle comari assisane scandalizzate dall’allegro spreco di denaro paterno messo in scena dal figlio, rispondeva così: «Che ne pensate del mio ragazzo? Sarà sempre un figlio di Dio, per sua grazia» (FF 1396). Appoggiandosi alla paternità di Dio che include tutti e non esclude nessuno, questa donna rivendica il diritto di conservare uno sguardo interiore maternamente fiducioso su suo figlio, non in proporzione ai successi che egli stava raggiungendo, ma in relazione al suo amore di madre che ambiva a non lasciarsi troppo distanziare dall’amore gratuito di Dio. Così risulta ben coerente che ai suoi frati chiamati alla sequela di Gesù, Francesco chieda, sia nella Regola bollata, sia nella non bollata, di amarsi e nutrirsi l’un l’altro come una madre ama e nutre il suo figlio carnale (cfr. FF 32 e 91).
Quando poi ci si sposta verso uno scritto meno istituzionale come la Lettera a un ministro il tono si fa ancora più perentorio: «In questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia.  E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia di tali fratelli» (FF 235).
Che bello questo perdono senza condizioni, senza data di scadenza! Che bello lo sguardo che farà desiderare al peccatore ostinato di essere perdonato; uno sguardo così profondamente umano che può far conoscere, nell’autenticità dell’amore per l’uomo, la profondità dell’amore per Dio.
Questa lettera è scritta a un guardiano stanco delle complicazioni relazionali in cui i suoi frati continuano a imprigionarsi. Vorrebbe ritirarsi in un eremo a pregare, ma Francesco gli risponde che «quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti percuotessero, tutto questo devi ritenere come una grazia. […] E questo sia per te più che stare appartato in un eremo» (FF 234). Stare di fronte a uno sguardo di chiusura o addirittura di accusa, senza perdere il sonno, e anzi facendone un’opportunità di crescita umanizzante e santificante è ciò che propone sapientemente Francesco.

 Desidero tu torni con me

E non basta: su questi frati, indisponenti o peccatori che siano, Francesco desidera che il ministro sappia stendere uno sguardo misericordioso, capace di non inquadrare il fratello, solo dallo spioncino del suo peccato o della sua scarsa amabilità. Amare Dio si traduce nella capacità di desiderare, non tanto ciò che è utile e piacevole per me ora, ma ciò che davvero è bene per noi che, tutti, nessuno escluso, siamo in cammino di conversione. Il ministro è invitato a non desiderare che i suoi fratelli siano cristiani migliori, non perché questo non sia per sé una cosa buona, ma piuttosto perché nessun bene (neanche che i fratelli “siano cristiani migliori”) deve essere desiderato in funzione di un altro bene (la propria pace).
Lo sguardo che aiuta il fratello a prendere coscienza del proprio desiderio di essere perdonato è, infatti, lo sguardo che gli dice: «Davvero desidero che tu torni con me». “Con me”, in comunione con me, con tutti noi frati e con tutta la nostra famiglia, fratello tra fratelli, e perciò con tutta la Chiesa. Tutti sappiamo che questo aiuto non può venire da uno sguardo mosso dall’imperativo di ristabilire l’ordine dopo che il peccatore, violando la legge, ha introdotto il virus del disordine nel sistema. Quello, infatti, è lo sguardo che, trovandosi impotente di fronte al morbo del peccato, è capace di uccidere il peccatore pur di ristabilire l’apparente salute del sistema. Esso, d’altra parte, è incapace di offrire un luogo e un tempo per rigenerare la vita dei figli nei fratelli che hanno abbandonato il Padre. Chi mi riconosce fratello, nonostante il peccato che ho commesso, mi riconduce alla fiducia del figlio che crede alla possibilità del riscatto e della riconciliazione, perché crede all’amore gratuitamente paterno e materno di Dio. Ma è evidente che questo sguardo misericordioso lo può sostenere solo chi ne ha fatto esperienza per primo e chi sa portare il peso del peccato altrui.
A questo bel giro di parole, si impone però la prova (o la capriola?) del nove. Cioè: ma voi frati davvero vi guardate l’un l’altro così come chiedeva Francesco? Davvero avete sempre misericordia l’uno per l’altro? Davvero vi amate in questo modo? Io non so se ho già peccato quanto sia possibile peccare… non ho ammazzato e, che mi risulti, non ho lasciato figli o figlie in giro per il mondo…tuttavia la mia distrazione, patologica e potente quanto altre mai, combinata alla spavalderia, non sempre politicamente corretta, con cui talvolta esprimo le mie spericolate opinioni, mi fanno sentire forte il bisogno di essere guardato dai fratelli con misericordia materna; e loro non hanno mancato di fornirmi dosi abbondanti di questa misericordia. Alcune rare volte invece di questa mi hanno passato “grazie divine” che, almeno in prima battuta, avevano l’odore e il sapore delle percosse che lasciano bernoccoli e lividi (metaforici, per ora… poi vedremo).
Nessuna sorpresa: la strada battuta da Francesco e da Gesù prima di lui è una strada in salita e andare su in salita è dura, bisogna pestare duro sui pedali. È dura, ma è anche efficace, dato che cammini di umanizzazione e di crescita che vadano in discesa sembra non ce ne siano in menù. Perciò noi proviamo a lasciarci trasformare dal Signore in grembi generanti gli uni per gli altri. Ci proviamo e, come per ogni uomo che si rispetti, non sono tutti successi, ma nemmeno son tutti fallimenti.

 Siamo nella stessa barca

Cerchiamo insomma di non cedere al fascino rassicurante della regata solitaria. Gli occhi, non ci riescono sempre, ma sanno che dovrebbero dire a ciascuno, più o meno amabile che sia, “sono contento di essere nella stessa barca con te”. Dopo ventun anni di vita conventuale posso dire con qualche autorevolezza che questo è quello che io tento di fare con i fratelli e quello che loro tentano di fare con me. Dopo otto secoli di storia, comprendenti schiere di santi, ma anche folle di peccatori, io e qualche altro brutto ceffo tra gli altri, noi francescani, siamo ancora qua. E allora, m’azzardo a credere che questo dipenda dal fatto, imprevedibile e sorprendente, che qualcosa del seme evangelico sparso da Francesco continua a sopravvivere gioiosamente perfino in mezzo a noi, suoi figli e fratelli degeneri.

Non è già questo un piccolo e non trascurabile successo?