Il tè delle tre

Il tè di oggi parte per me con un po’ di disagio. Non mi sento affatto pronta. Provo la sensazione sgradevole di aver dimenticato qualcosa di fondamentale. Mi muovo un po’ inquieta per la stanza in mezzo ai nostri invitati, senza riuscire a mettere a fuoco che cosa possa mai aver perduto. Eppure qualcosa non va. La voce di Maura mi raggiunge mentre verso il tè nel bicchiere: si inizia.

a cura della Caritas di Bologna

 

L’accoglienza ti si siede accanto

Lasciare le proprie sicurezze per andare incontro agli altri 

Punti di riferimento

Quando siedo nel cerchio in mezzo agli altri e faccio correre lo sguardo sui presenti, finalmente tutto mi si fa più chiaro: qualche sedia è vuota e mancano i volti di alcuni amici “abituali” del nostro tè.

Afferro al volo il mio fastidio e lo guardo dritto negli occhi: ora lo distinguo. Mi sento smarrita senza di loro e sono delusa di non vederli lì. Senza il punto di riferimento che rappresenta per me la loro presenza nel cerchio, mi scopro più insicura. Il vuoto di quelle assenze mi pesa. Significa che anche oggi occorre ricominciare tutto da capo. Prendo fiato e respiro a fondo. Non c’è altro da fare che concentrarsi sui nuovi amici e su ciò che diranno. Tema di oggi: l’accoglienza.

Vincenzo rompe il ghiaccio, ha la voce ruvida. Le mani gli tremano un po’: «Be’ se penso alla parola “accoglienza”, a me viene in mente subito quel che sta accadendo in Europa. Ho in mente le facce della gente che scende dai barconi a Lampedusa, li avete visti al tg? Che assurdità: noi che ne abbiamo combinate tante nei loro paesi, adesso mettiamo su il filo spinato per non farli entrare nel nostro! Ecco, per me l’accoglienza non è quella che fanno i centri o le istituzioni, ma quella di chi è ancora capace di avvicinarsi e chiedere: “Hai bisogno di qualcosa?”. Accogliere significa affidare tutto se stessi e tutta la propria vita a qualcuno, aprire le braccia e fidarsi: la bellezza di chi accoglie è questa!».
«È verissimo, in fondo quando arrivi in un posto nuovo, quel che ti colpisce subito, ciò che ti fa piacere immediatamente è l’ospitalità che ricevi… Non è così?» dice Maurizio con il sorriso di chi ha vissuto l’esperienza: «Io penso che come una persona ti accoglie, ecco, quello è il segno della sacralità della sua gente. Voglio dire: tu puoi anche essere il popolo più progredito e potente del mondo, ma se non sai ospitare, vali poco e niente, perché significa che hai dimenticato le tue radici, hai perso quello che è sacro e intoccabile… Ma oggi cosa c’è di sacro? Internet, facebook, i cellulari. Boh, a me dà quasi fastidio».
«Però non è così ovunque!» è Luciano a parlare, ha la voce vibrante di chi proprio non può tacere. La sua emozione arriva forte, prima delle parole: «Io vengo dal sud e da noi non funziona come dici tu! Anche ora, se viene a trovarci un ospite, cambiamo le lenzuola e gli diamo il nostro letto, gli offriamo il cibo migliore che possiamo preparare, insomma lo consideriamo come uno di famiglia». Mentre prendo appunti, noto, con la coda dell’occhio, Maura alzarsi e avvicinarsi a Luciano. Si siede accanto a lui, su una sedia rimasta vuota. Smetto di scrivere e mi faccio più attenta. Maura ci dice, scusandosi, che ultimamente è peggiorato il disturbo alle orecchie. Ha bisogno di avvicinarsi per sentire e ascoltare meglio. Luciano le sorride con dolcezza, annuendo comprensivo. L’atmosfera cambia e mi accorgo del profumo dolce ed intenso che sale dalla brocca del tè bollente. 

Cicatrici che si fanno sentire

Dall’altra parte della stanza si alza una voce femminile e profonda. «Io vengo dal Camerun. Qui a Bologna studio Farmacia. Il mio è un paese grande, dove abitano ricchi e poveri. E sapete? I poveri aprono le loro porte a tutti. I ricchi no, hanno paura. Paura di tutto! Nel mio paese non c’è la guerra, ma c’è un’enorme instabilità politica. Quella produce la grande povertà, che poi nutre la cattiveria della gente e la cattiveria in questo modo cresce sempre più e diventa un mostro. Per questo ora, se un povero apre la sua porta, rischia davvero di essere derubato, violentato o anche ucciso… Da questa cattiveria siamo costretti a scappare. E quando noi lasciamo il paese, non sappiamo niente del posto dove andiamo. Non è vero che veniamo qui per portarvi via qualcosa, come dice certa gente». Improvvisamente le parole mancano; si impigliano in un sospiro, riprendono e poi s’inciampano goffe in un singhiozzo. Restano immobili, in bilico sul silenzio. Infine il dolore le spinge fuori con forza: «Io ho una ferita aperta dentro, una ferita che sanguina. È la mia famiglia rimasta in Camerun. Non li ho potuti portare qui in Italia, ma da qui mi occupo di loro. Li porto dentro di me sempre anche se mi fanno sanguinare. E allora sapete che ho fatto? Nella mia casa piccolissima ho ospitato fino a sette studenti che non avevano più un posto dove stare. Ho dormito in terra per un anno intero e non era facile. A volte litigavamo per lo spazio; d’estate era caldo e stavamo troppo stretti; una volta siamo anche finiti tutti in ospedale, perché abbiamo mangiato cibo troppo vecchio… Però ne è valsa la pena, perché eravamo una famiglia. Adesso questi ragazzi sono tutti laureati, vivono altrove eppure non dimenticano che siamo stati persone insieme». Il dolore si fa commozione e dagli occhi della ragazza scendono giù lacrime pesanti come chicchi di grandine. Il bicchiere pieno di tè cade a terra in un’esplosione di schizzi bollenti. Nessuno ci fa caso, siamo tutti concentrati sulle sue parole. Maura si muove di nuovo. «Due anni fa ho perso la mia bimba più piccola. Senza di loro, senza i miei ospiti, non sarei mai vissuta. Sono stati la vita per me, mi hanno salvato! Io li ho ospitati e ho fatto sacrifici, è vero, ma loro mi hanno restituito la mia vita, quella che avevo perduto».
La voce flautata di Olivia attira la nostra attenzione. «Io vengo dal Togo. Se penso all’accoglienza, penso a mia madre che, per prima, mi ha mostrato come superare la paura dello “straniero”, cioè di chi non conosco. Lei mi ha insegnato che sei sempre “straniero” di chi non conosci. Questo è il fatto. Bisogna accogliersi per conoscersi, bisogna aprirsi. Certo è un rischio ospitare qualcuno nella propria casa o anche nel cuore, nella mente o nella vita. Ma se lo fai, allora si crea uno scambio: ed è lì che avviene l’incontro. Solo nella reciprocità si può essere ospitali, altrimenti l’accoglienza è finzione». «Proprio così, hai ragione! Avete mai notato?» interviene di nuovo Maurizio «La parola “ospite” definisce sia chi ospita, sia colui che è ospitato… Chi ospita quindi non è superiore a chi è ospitato; perché abbiamo tutti la possibilità di diventare più umani in questo scambio, no?». «E poi: non siamo tutti ugualmente ospiti della vita?», puntualizza Vincenzo con ironia.

 Fratture che possono essere ricucite

«Non è così semplice, però!» sbotta Imane, nata a Casablanca. Porta il velo, ma la sua cadenza è più bolognese della mia. «Io sono arrivata a Bologna a undici anni, ora ne ho trentatrè e sono italiana. Ma quando giro per strada e parlo con le persone, loro guardano il mio velo e non vedono più me, né la persona che sono davvero. Giudicano il mio velo e basta. La maggioranza pensa che siccome sono islamica, allora sono una terrorista. Ma l’Islam non va confuso col terrorismo! Così noi, oltre la fatica che facciamo come diversi, paghiamo anche la cattiveria di quelli! Non è giusto!». Anche Leone interviene: «È proprio così purtroppo: il diverso fa sempre paura, te lo dico io che da anni entro ed esco dal dormitorio!».
«Il fatto è che se si dimentica la solidarietà, si finisce per fare di tutta l’erba un fascio!» riprende Carlos «Noi italiani dovremmo avere il coraggio di condannare a voce alta chi si comporta male e invece succede che si sta tutti zitti e poi ci lamentiamo solo di chi è diverso da noi».
«La mia esperienza è un po’ differente» dice un signore distinto che non vuol rivelare il suo nome «io suono per strada e con me la gente di solito è generosa. Poi devo dire che l’ospitalità di un prete mi ha salvato la vita… prima dormivo in autobus, ma non era certo una bella situazione. Ora ho avuto la casa del comune, e non oso pensare come sarei finito se mi fossi ritrovato a dover dormire per strada».
«Be’, sapete cosa penso al termine di questo pomeriggio?» chiede Maurizio all’uditorio attento, «Penso che Dio - o Allah, che poi è lo stesso - ci ha fatti tutti diversi, con esperienze completamente diverse, perché proprio non vuole un mondo monotono. Quando vado incontro ad uno diverso da me, finisce che faccio del bene anche a me stesso, perché l’altro mi fa sentire la mia unicità. Mi fa scoprire quella bellezza di me che ho solo io al mondo… capite? Bello no? Se incontro qualcuno di diverso, in qualche modo, sono sicuro di incontrare chi sono io! Insomma, se ci si vuol bene, la diversità va coltivata. Io cambierei anche il motto della rivoluzione francese e lo trasformerei in: liberté, fraternité, diversité! Che ne dite?».
È tempo di chiudere. Maura chiede al nostro anonimo chitarrista se ha voglia di farci sentire un suo brano. Lui è un po’ intimidito, ma accetta con disponibilità e tutti insieme decidiamo di dedicare quelle note alle donne del mondo. Mentre le dita si spostano veloci sulle corde e l’armonia della musica si fonde piacevolmente con l’aroma del tè, guardo le sedie vuote che tanto mi avevano turbato all’inizio. Poi osservo Maura, ora concentrata nella melodia. In realtà, durante tutto lo scambio, non ha mai smesso di muoversi, avvicinandosi con delicatezza a chi parlava, condividendo nella prossimità anche le emozioni più faticose. Ripensando a quel suo spostarsi instancabile da una sedia all’altra per ascoltare meglio, mi viene in mente il movimento continuo di un ago che rammenda e copre, col suo perseverante andare, ogni strappo, ogni lacerazione. Realizzo che non c’è distanza o assenza o frattura che non possa essere ricucita da quel tipo di condivisione. Al termine del brano mi alzo e mi viene da pensare che l’ospitalità vera cominci semplicemente così: lasciando il proprio posto per avvicinarsi a quello del fratello.